* Inizialmente, tra gli anni ‘50 e ’60, si verifica il passaggio dal volontarismo democratico risorgimentale – attraverso l’istituzionalizzazione – al conservatorismo della nuova classe dirigente e con quest’ultimo una prima affermazione nel dibattito della Questione d’Oriente (in quanto questione nazionale);
* Di conseguenza, una parallela mutazione di senso dell’irredentismo. Nasce tra quegli stessi gruppi della sinistra e guarda essenzialmente al Trentino, non al Tirolo e in maniera molto vaga ad Oriente254. È comunque ammantato di idealismo democratico255. Nelle elaborazioni delle classi dirigenti assume invece un carattere esplicitamente geopolitico ed inizia a formalizzare le mire sull’Adriatico-mare interno256;
* Le forme del nazionalismo vanno sostituendo quelle della lotta democratica per il principio di nazionalità. Nei Balcani ciò che consolida i nazionalismi, ciò che contribuisce a renderli tali, verosimilmente è l’originaria ingerenza straniera a supporto dei movimenti nazionali; giacché non sarebbero dati nazionalismi (movimenti strutturati) al di fuori di un riferimento istituzionale o paraistituzionale. L'effetto manifesto del Congresso di Berlino – il riconoscimento dell'indipendenza, pur formale, delle nuove entità statal-nazionali balcaniche – comporta la sanzione del nazionalismo (delle piccole patrie), sotto l'attenta e interessata guida delle potenze europee. A partire dall’Ausgleich257 del 1867, dalla soluzione austro-ungarica in luogo di una possibile federazione plurinazionale, è maturato un nuovo approccio alla questione delle componenti etniche dell’Impero. La nuova divisione amministrativa258 è strumento di una strategia classica di divide et impera. In un alternarsi di repressione e concessioni paternalistiche, le autorità austriache alimentano (in regime di reazione controllata) i reciproci antagonismi nazionali; con lo scopo d’impedire una qualsiasi aggregazione plurinazionale, segnatamente delle componenti slave-slave del sud. Sono invece gli irredentisti e le potenze revisioniste d’area, la Russia e in fieri l’Italia, ad auspicare una destabilizzazione totale dei due imperi multinazionali; laddove Francia e Inghilterra si muoveranno formalmente su una linea di status quo, di ridimensionamento nel segno dell’equilibrio europeo. Il progetto trialista259, a partire da questa situazione, vorrebbe rinnovare la struttura dell’Impero secondo un modello che includa i tre principali gruppi nazionali (tedesco, ungherese, e slavo); ma nasce anche dalla necessità di depotenziare la crescente influenza russa-serba e italiana. I nazionalismi vivono però di reciproche influenze e contaminazioni. Mentre il trialismo è richiamato dalla mobilitazione progressiva della maggioranza slava – da una reazione alla potenzialmente distruttiva crescita italiana e serba, due entità statali che catalizzano i rispettivi gruppi etnici e destabilizzano l’area – l’effetto dell’ipotesi trialista è un’estremizzazione (etnica-antislava) delle tematiche irredentiste ad ovest;
* La dialettica tra i due irredentismi si protrae a lungo. Se ne potrà trovar traccia nei primi anni del nuovo secolo, in quella tra nazionalismo umanistico e imperialista. In epoca crispina, però, anche in seno all’irredentismo la corrente espansionista comincia ad essere prevalente. Spezzato il legame con il retaggio risorgimentale260, che continuerà ad essere rivendicato, si delinea quel modello di governo forte articolato sui tre pilastri: Dell’autoritarismo interno; Del protezionismo economico; Dell’espansionismo. Modello, espressione di un patto sociale261 tra potere politico ed economico e antesignano della deriva autoritaria. In politica estera, corollari al primo colonialismo (ma si potrebbero invertire i termini) sono il triplicismo e la politica antifrancese; secondo lo schema di Santoro che vede il ciclico alternarsi di fasi mediterranee e continentaliste nella politica estera italiana262. Di necessità queste nuove tendenze irredentiste sono compresse dalla posizione triplicista;
* La crescente ambiguità che accompagna l’Alleanza263, segnala che si sta completando il passaggio dall’irredentismo sovversivo a quello reazionario. Se è vero che persistono orientamenti filotedeschi nella classe dirigente, manifestazioni popolari di segno opposto vengono represse sempre più a fatica. Comunque vincolato dalle scelte in politica estera, l’antagonismo con l’Austria-Ungheria nei Balcani si esprime in termini di penetrazione economica. Così per la seconda fase coloniale, nel progetto giolittiano di consenso e stabilizzazione interna. Anche queste incoerenze accompagnano il capovolgimento delle categorie ideologiche originarie: se il primo irredentismo era stato antitedesco, quello nazionalista sarà antislavo e non più solidarista ma tendenzialmente razzista. Determinante riguardo a quest’ultimi aspetti, il nuovo assetto trialista che la monarchia asburgica si sta dando;
* La Grande Guerra opera una sintesi tra mito nazionale e mito rivoluzionario, in ciò che sarà il fascismo264. Il ruolo catalizzatore – comunque in forma mitica – della “crisi della vittoria” (Chabod), fa assumere il revanchisme come tema dominante. In una prima fase del Regime, di “restaurazione nazionale”, a partire dal mito fondante della Grande Guerra perdura un approccio irredentista. Nella fase “totalitaria” il mito della nazione rivoluzionaria andrà fondendosi in quello della rinascita imperiale. Il revisionismo si presenta allora come un prologo strategico all’ Ordine Nuovo europeo che avrebbe visto l’Italia al centro di una comunità imperiale265.
In una parallela prospettiva di sviluppo industriale, quale quella che abbiamo assunto, a questo può essere sovrapposto un altro schema. Incisa di Camerana ha infatti letto il caso italiano attraverso i cinque (+1) Stadi di Rostow266:
* Società tradizionale: Italia preunitaria: Sistema assolutista feudale o coloniale;
* Fase delle condizioni preliminari dello sviluppo: Risorgimento: Egemonie intellettuali unitarie nelle società civili-regimi oligarchici di tipo pluralista;
* Decollo (Take-off):
- Crispi (1882-1896);
- Interventi di massa di tipo prerivoluzionario (1896-1915);
- Regime carismatico-autarchico (1922-1943);
* Drive for maturity (sviluppo autonomo ed autopropulsivo): Sistema egemonico competitivo di tipo liberale (1945-1961);
* Società dei consumi: Sistema competitivo alternativo e bipartitismo imperfetto (1961- ?);
* Beyond consumption (oltre la società dei consumi).
Emporio triestino e Stato da mar
Nel processo di costruzione e degenerazione del mito nazionale, è dunque centrale la questione adriatica; intesa in senso plurale, come definizione dei confini e come ri-definizione dell’area d’interesse geoeconomica-geostrategica. Allo stesso tempo l’ipotizzata assenza di un establishment nazionale sottolinea, di nuovo, il rilievo dei gruppi d’interesse locali: la cui azione riverbera il più ampio trend antipolitico dei ceti produttivi267. Si può parlare a tal proposito di un movimento reattivo268 di élite, di fronte al mutamento del quadro politico ed economico. La tendenza corporativa è però contemporaneamente il motore e il limite principale dell’iniziativa di questi gruppi.
Significative le vicende interne alle due capitali adriatiche – Trieste e Venezia – innescate dalla nascita del nuovo Stato italiano e dai mutamenti istituzionali nell’Impero Asburgico. Si verifica una perdita di centralità delle due città – che progressivamente hanno esaurito un proprio ruolo (macro-) regionale – e, all’interno di questa, delle élite che vedono il proprio fortemente compromesso e aspirano ad ampliarlo. C’è quindi una doppia risposta reattiva:
* La reazione di élite declinanti, in tendenziale agonismo anche con le nuove élite (politico-burocratiche che l’espansione del ruolo statale pone in rilievo269);
* Il tentativo di dare un nuovo ruolo e rifunzionalizzare economicamente le città.
Per l’effetto congiunto di questa doppia risposta, Venezia e Trieste divengono due centri di elaborazione dell’irredentismo e dell’imperialismo economico; come lo saranno del revisionismo270.
Ancora una volta, il mito sarà un potente strumento di mobilitazione e di legittimazione per le élite e, più tardi, rispetto alla politica adriatica del Regime. In generale, rispetto a programmi di modernizzazione e di espansione economica; nel consueto connubio tra imperialismo e nazionalismo economico.
Le élite locali concorrono parallelamente alla formazione di due linee di imperialismo adriatico: riconducibili all’antitesi strutturale continentalista-mediterraneo271, tra i modelli di politica estera italiana. Costruzione che avviene, naturalmente, a partire da una rielaborazione metastorica di un passato glorioso:
* L’élite veneziana, nell’ottica del mito talassocratico272 della Serenissima, guarda ai Balcani in funzione di una proiezione sul Medio Oriente e sull’Oceano Indiano;
* L’élite triestina che è variamente attraversata da quello della capitale economica273, invece, pensa l’Europa centro-orientale come la direttrice principale dell’espansione economica italiana.
L’importanza dell’area veneta nella genesi simbolica del nazionalismo prima e del fascismo poi, pare il risultato non solo dell’eredità ideologica risorgimentale e del precipitato del processo unitario ma anche di un’opzione irredentista-imperialista delle élite: che si identificano, in certa misura, motivano e strumentalizzano tali tendenze ideologiche. Ovviamente non si vuole richiamare nessun determinismo, bensì una relazioni tra i due fenomeni: ascesa-decadenza di élite locali e tendenze imperial-revisioniste. Questo è tanto più vero nel caso di élite politico-burocratiche o di élite economiche con un buon grado di integrazione a livello politico-burocratico.
Proprio a Trieste, il fenomeno si sviluppa come conflitto tra vecchie élite economiche cosmopolite e nuove élite politico-burocratiche in ascesa, già in periodo imperiale. In questa prospettiva la scelta ideologica assume un evidente carattere strumentale: l’irredentismo diviene strumento di pressione sulle vecchie élite e di consenso, per le nuove che a queste vogliono sostituirsi. Uno strumento di mobilitazione economica per un progetto, attraverso cui rinverdire i fasti di capitale imperiale.
“L’imprenditoria triestina vagheggia [infatti] un programma espansionistico ad ampio raggio, sostenuto dallo Stato, in cui a Trieste sia riservato un ruolo egemone”274.
A Venezia la compenetrazione tra mondo economico e mondo politico è apparentemente meno conflittuale275. Forse per la minore consistenza del primo; evidentemente per una certa estraneità al capitalismo cosmopolita di marca europea. Anche qui formalmente è in vista di una modernizzazione della città; del porto, nella fattispecie, e della nascita di Marghera tra il 1919 e il 1932. “Il polo veneziano [sarà, allora,] concepito e realizzato dal gruppo finanziario incentrato sulla SADE-Società Adriatica di Elettricità e dal suo esponente di punta, Giuseppe Volpi, come uno strumento di integrazione (e sprovincializzazione)276 del capitale finanziario e fondiario veneto con le più mature centrali finanziario industriali del Nord-Ovest”277. Come altrove, si verifica quella saldatura tra una nascente classe dirigente nazionale e élite locali che la vanno formando; veicola ancora una volta una contaminazione ideologica del dibattito nazionale con tematiche proprie di quelle realtà. Per meglio dire un’estremizzazione, una diversa declinazione di tematiche già presenti e che andranno a comporre la temperie ideologica revisionista-fascista. I due nodi ideologici di questa estremizzazione sono rappresentati da:
* Il definirsi della struttura concettuale del nazionalismo imperialista;
* Il passaggio dall’irredentismo liberale all’irredentismo radicale.
Da un’originaria coincidenza nel fascismo tra concetti di imperialismo e revisionismo278, il revisionismo (fascista) prenderà forma a partire dalla progressiva radicalizzazione dell’irredentismo e dell’imperialismo.
Nata a partire dal quel processo che è stato definito di “elaborazione del lutto della Repubblica”279, la retorica talassocratica della potenza marittima diviene costitutiva dell’ideologia imperialista. Un tema parossistico nella politica estera fascista; specie nella seconda fase (1935-45)280, più propriamente imperialista. Costitutive dell’ideologia fascista (movimentista) le tematiche irredentiste radicali. Se – come afferma Pacor – l’irredentismo si sviluppa prima nel Regno che nelle terre irredente281, la radicalizzazione in senso etnico è importata dai territori imperiali282. È soprattutto conseguenza diretta di mutamenti socio-economici che investono l’area giuliana e fiumana; anche a seguito dei quali, “la questione delle terre irredente [apparirà] sempre meno un problema di autodeterminazione nazionale e sempre più una questione di hinterland o di spazio economico”283. Un processo non necessariamente coerente ma reattivo e cumulativo284 e la cui scansione temporale si può riassumere in tre momenti:
* Nel periodo 1900-1915, la riqualificazione in senso imperialista della questione adriatica;
* La radicalizzazione progressiva dei paradigmi irredentisti a datare dallo stesso periodo e che con la prima guerra mondiale è già compiuta;
* Tra il 1935 e il 1943, l’effettiva deriva imperialista285; fino alla seconda metà degli anni trenta, infatti, si tratterebbe di una estremizzazione della tradizionale politica di espansione economica. Un apogeo e contemporaneamente il termine finale del processo di costruzione ideologica della categoria imperialismo-irredentismo-revisionismo.
Le due guerre mondiali rappresentano i termini ante e post della fase di espansione massima e decadenza di questo fenomeno. Eventi qualificanti del primo termine sono:
* L’abolizione del porto franco triestino (1891);
* La politica di “distanziamento/depotenziamento” dalla Triplice286 con uno spostamento della politica estera sull’asse continentale-balcanico (1904287-15).
È in questo periodo di “riflessione sull’identità nazionale”288 che maturano e si esasperano proprio quelle premesse ideologiche al conflitto e all’avvento del fascismo. Dalla guerra maturano quelle “concentrazioni economico finanziarie”, quei rapporti, quelle “alleanze” politico-economiche che sosterranno l’involuzione autoritaria289. La guerra porta a compimento quel binomio autarchia-imperialismo290 che accompagna la storia dell’Italia liberale e influenza larga parte dell’intellighenzia. Come già ricordato, secondo Emilio Gentile il termine principale di questa mutazione è da collocarsi invece tra il ‘12 e il ‘22 e sta nella “metamorfosi del mito nazionale”291. Con la caduta del mito nazionale risorgimentale si assiste ad una “scissione fra Stato nazionale e democrazia liberale”: si spezza il modello di identificazione dell’Italia liberale che si ricompone secondo linee ideologiche e modelli antitetici. La Prima Guerra Mondiale è, infatti, fattore di una “ideologizzazione della nazione” ovvero di una nazionalizzazione ideologica. Al trinomio nazione-libertà-modernità si sostituisce una visione della nazione – specie nella sua versione autoritaria – come unità organica (Rocco). L’estraneità totale, l’inconciliabilità tra modelli polarizzati e la radicalizzazione del confronto politico espresso nella contrapposizione violenta292.
Funzionali a questa visione, determinanti, i miti adriatici. Basti pensare alla capacità di mobilitazione che produrrà la questione adriatica, col primo esito dell’impresa fiumana: la rottura istituzionale293 che introduce al triennio di guerra civile e all’ascesa del fascismo. Schematicamente il processo si compone di quattro fasi-fattori:
* Decadenza del ruolo delle città e decadenza delle élite --> Ricerca di un nuovo ruolo;
* Unità italiana --> e mutazioni nella struttura dell’Impero (verso il trialismo) --> Radicalizzazione etnica;
* Miti --> Legittimazione delle nuove élite e legittimazione della politica adriatica del Regime;
* Rapporti italo-tedeschi --> incoerenze (reattività).
A Trieste l’abolizione del porto franco294 nel 1891 – che ha esaurito la sua funzione e ospita ora solo commerci di transito – è parte di un disegno generale di “razionalizzazione della politica commerciale e d’impulso industriale”295 dell’Impero. Una politica di dazi, sovvenzioni, esenzioni fiscali che produrrà un rapido sviluppo industriale e porterà l’area tedesca in gravitazione sulla città (Ferrovia dei Tauri, 1906296). La rifunzionalizzazione economica di Trieste è legittimo immaginare sia parte, quanto meno indiretta, della politica di snazionalizzazione legata al progetto trialista. Lo sviluppo ai primi del nuovo secolo sta infatti richiamando una forte immigrazione slava (slovena) e una dinamica piccola-media borghesia commerciale-professionale: una seria minaccia all’equilibrio etnico su cui poggia l’egemonia sociale e politica della borghesia italiana. L’élite politica locale (che col Partito Liberal-Nazionale guida da decenni l’amministrazione) non potrà che spostarsi su posizioni irredentiste; da una tradizione istituzionale-lealista, di difesa della nazionalità attraverso le leggi austriache, ad un solo formale lealismo con in prospettiva l’annessione al Regno d’Italia. Tra il 1897 e il 1909 si va realizzando una progressiva introduzione del suffragio universale con un’ovvia tendenza allo scompaginamento degli equilibri politici locali (in coincidenza con la forte immigrazione slovena): il ridimensionamento dei liberal-nazionali297 e lo spostamento sul piano del conflitto nazionalista-identitario. Per le autorità austriache risulta inaccettabile, dopo la nascita della nuova entità statale ad ovest, che una capitale economica imperiale rimanga etnicamente italiana298.
Naturalmente e pragmaticamente pro-istituzionale e apolitica, l’élite economica299 è invece in maggioranza filoaustriaca. Tramontati gli anni d’oro della nascita di Generali (1831) e RAS (1838)300, è un’élite declinante e ormai integrata-assorbita dalla finanza viennese (è quest’ultima che in realtà sosterrà lo sviluppo industriale301). Una perdita d’autonomia economica che investe la più generale autonomia del gruppo etnico italiano. I liberal-nazionali tenteranno allora di creare una struttura autonoma di credito (Banca Popolare di Trieste, 1891) che serva da strumento di contrasto alla concorrenza economica slovena e di consenso elettorale (attraverso la raccolta del piccolo risparmio e la concessione di crediti a basso interesse).
In via d’ipotesi se per l’élite politica (medioborghese) l’irredentismo potrebbe rappresentare un mezzo di mobilitazione sociale e di pressione attraverso cui aspirare ad una sostituzione dell’élite economica, per una frazione di quest’ultima di fronte al declino sembra avere un valore reattivo. Dai rapporti di un piccolo nucleo di establishment economico con l’élite veneta, difatti prenderà forma una nuova élite economica nazionalista: la futura “ala vincente del capitalismo giuliano”302 fascistizzato che estrometterà i vecchi gruppi autonomisti. A riguardo la guerra opera una doppia selezione, per mezzo della crisi economica e dell’epurazione degli elementi austriacanti; vede la modifica della composizione e della distribuzione del potere nell’élite con la vittoria dei liberal-nazionali. Nella corsa dei cartelli bancari italiani alla sostituzione del capitale viennese nell’area danubiano-balcanica – in un primo progetto di penetrazione economica303 – l’élite superstite riesce, infine, ad integrarsi nella finanza italiana proprio grazie all’indispensabile patrimonio di esperienze e relazioni internazionali. Di fronte al profilarsi della crisi economica, dovuta al ridimensionamento del mercato tradizionale, andrà riconvertendosi al nazionalismo economico (fascista)304. Immagina per se stessa un profilo autonomo all’interno dell’economia italiana; di poter ricostruire i propri interessi in Centro Europa.
Prima che la rapida ripresa tedesca dissolva ogni velleità, all’inizio degli anni venti – nella situazione di fluidità dell’area ex-imperiale – pare ancora possibile una penetrazione economica italiana305: da attuarsi attraverso un programma neoprotezionista-espansionista “ad ampio raggio sostenuto dallo Stato” e centrato su Trieste. “La riedizione aggiornata del quel protezionismo che la politica economica della monarchia asburgica aveva accordato all’emporio, al riparo della quale industrie e commerci a Trieste erano abituati ad agire”. In una possibile “reciproca funzionalità con quei programmi nazionalistici che individuano nella penetrazione politica e culturale un tramite e un presupposto alla penetrazione economica in vista di una politica imperialistica di potenza dello Stato italiano”306.
In realtà il programma neoprotezionista è comunque espressione di quell’imprenditoria che aspira al mantenimento di uno status autonomo. Non necessariamente dei nazionalisti – largamente cooptati dal mondo economico – più disponibili ad accettare il prossimo protagonismo statale. Tra il 1929 data del crack del gruppo Brunner307 (causato dall’apprezzamento della lira) e della Banca Commerciale Triestina, storica centrale finanziaria giuliana ad esso collegata che viene assorbita dalla COMIT (1932) e il 1934 in cui l’IRI incorpora i vecchi cantieri giuliani (Cantieri riuniti dell’Adriatico), l’ala autonomista si dissolve. Da un’iniziale simbiosi tra potere economico e politico, nella coincidenza di cariche politiche amministrative e dirigenziali, il dirigismo sarà l’occasione per l’élite politica fascista (piccolo-medio borghese) di esprimere la nuova élite economica del management di Stato. Lo scontro tra fascisti e residui autonomisti liberal-nazionali riguarderà il controllo dei vari aspetti della vita cittadina; non solo direttamente economici e politici ma della vita associativa che si vuole assorbita totalmente dalle organizzazioni di massa di Regime.
La conclusione della campagna di normalizzazione segnerà una periferizzazione economica e al contempo una provincializzazione culturale, ad immagine del parvenutismo fascista. La città decadrà dal suo ruolo storico di centralità economica e multiculturale. Trieste assume, allora, una posizione secondaria nella mappa dell’economia italiana e nel pur vago programma espansionistico. “Alla debolezza e alla indeterminatezza di tali programmi stava di fronte la realtà di una città che, a poco più di un quindicennio dall’unificazione, aveva visto nella ristrutturazione delle linee di navigazione, nel salvataggio statale dell’industria cantieristica, nella caduta dei traffici del porto, inaridirsi la propria vita economica”308.
Tra i limiti strutturali dell’imperialismo economico italiano (del capitalismo stesso) si è soliti lamentare la carenza, quando non l’assenza, di una classe economica cosmopolita; classe che il fascismo fattosi Regime qui rimuove, come elemento non del tutto assimilabile e quindi potenzialmente ostile. Il tramonto dell’autonomia – per opzione precisa del Regime – è il tramonto stesso della vecchia élite309: di quella componente vitale, economica e culturale, della società giuliana che – sola – avrebbe potuto concretizzare le politiche di espansione nell’Europa danubiana e balcanica.
Diverso il panorama del retroterra veneziano, della Regione economica veneta, protagonista fin dal XVIII sec. di fenomeni di protoindustrializzazione e protodistrettualizzazione310, in integrazione con la padana lombarda e in relazione (culturale e commerciale) con l’Europa Centrale; di “segmenti dell’antico spazio manifatturiero della Repubblica di Venezia transitati all’industrializzazione moderna nell’ambito della regione economicamente e socialmente omogenea costituitasi nella fascia delle valli prealpine e dell’alta pianura che andava dal Piemonte al Friuli”311. Anche nel caso veneto-veneziano la determinante-discriminante apparirà di tipo infrastrutturale312.
Se guardiamo alle origini dell’industrializzazione del Veneto come ad un processo di affrancamento dall’assenteismo fondiario e di sviluppo articolato attorno ad attività manifatturiere tradizionali, la trasformazione avviene a partire dai due poli industriali dell’alto vicentino rossiano – come una delle aree d’industrializzazione originaria del Paese – e di Porto Marghera, prima zona industriale pianificata italiana313. Due poli espressione di due fasi. La rottura iniziale dell’assenteismo del capitale fondiario, operata da Rossi e Breda, che procede anche attraverso l’iniezione di capitali ed esperienze nord-occidentali e italiane, e nel contempo attraverso l’impianto di un modello d’industrializzazione proprio (diffuso-rossiano). La parte finale di questo primo stadio di sviluppo – di transizione dal capitale fondiario a quello industriale di rischio – e la premessa del “second wind”, si situa tra gli anni ‘20 e ‘30 col grande progetto illuminista di rilancio industriale-portuale di Venezia314.
Piero Foscari (1865-1923)315, discendente decaduto della nobiltà dogale, concepisce Marghera316 come proiezione (dell’invenzione) del nazionalismo veneziano; una proiezione imperialista nella rinascita industriale-economica della città. Volpi ne sarà il realizzatore317. Il progetto dei veneziani318 – innanzitutto un progetto finanziario e industriale – si riferisce a contenuti di natura ideologica propri della seconda fase imperialista (dagli anni ‘10-‘20 alla conclusione del secondo conflitto mondiale)319. L’ideologia vi svolge, cioè, una funzione aggregatrice rispetto alla nuova borghesia modernizzatrice320.
L’ideologia della modernizzazione321 foscariana sarà retoricamente sublimata dal vate – interprete dei contraddittori umori antidemocratici322 della borghesia italiana fin de siècle-primonovecentesca323 – in quel che diverrà il mito adriatico dannunziano. Quest’ultimo media le categorie del nazionalismo veneziano nel pantheon nazionalista italiano.
Il “rinnovamento attivistico del mito di Venezia”324 – causa-effetto del progetto modernizzatore e del “sogno balcanico” (S. Romano) volpiano, proiezioni della politica estera orientale italiana – subisce alla metà degli anni ’20 una rielaborazione che ne estende il classico significato panadriatico; oltre i temi tradizionali del ricongiungimento alla sponda dalmata e della testa di ponte montenegrina-albanese, a cui si sono affidate le prospettive di sviluppo della città. “Venezia per essere redenta e per prosperare aveva bisogno dell’altra sponda […]. Ma a quella redenzione non sarebbe mai stata sufficiente la penetrazione economica italiana nelle regioni albanese e montenegrine, né l’unione personale con l’Albania nel 1939 e nemmeno la redenzione della Dalmazia nel 1941. […] Il ciclo di Campoformido non si sarebbe chiuso, se non con la reimmissione nell’Italia fascista, erede e continuatrice tanto di Roma quanto di Venezia, dell’intero corpo dei possedimenti dello Stato veneto quale giunto al 1797”325. Il motivo revanscista veneziano dell’ eterno irredentismo è strategicamente traslato sul piano nazionale e reinserito nel corpus ideologico-rivendicativo fascista, legittimante. Nella propaganda nazional-fascista, l’Adriatico-Golfo di Venezia segnerà allora i margini di uno spazio vitale italiano proiettato verso Est. Il mito talassocratico andrà a confermare l’imperialismo marittimo326. Mito talassocratico che promana anch’esso dal nucleo di quello mazziniano-giobertiano della Terza Roma. Quest’ultimo – nella sua versione liberal-modernista o cattolica – alla sua nascita opera una ri-unificazione della storia patria in una dimensione a-storica, in cui la funzione universale della nazione eletta italiana (“creatrice e redentrice dei popoli”327) fluisce da Roma328 attraverso l’Italia comunale fino al Risorgimento e la proietta verso la sua futura missione civilizzatrice.
La romanolatria fascista tenderà ad una “trasvalutazione della romanità”, ad un’attualizzazione e sacralizzazione del mito di Roma329 (similmente a quanto accade in tono minore per la retorica marittima veneziana) e la sua assunzione a modello pedagogico per la costruzione dell’italiano nuovo. Un nuovo civis romanus ad immagine del demiurgo, attore di aspirazioni totalitarie prima che imperialiste330.
In quest’ “uso pubblico del passato” si manifesta secondo Isnenghi331 e Canfora – contro il falso presupposto dell’inesistenza di una cultura fascista – il progetto di egemonia culturale (gentiliano); “una demagogia professorale” pronta a fornire “alibi culturali e precedenti storici” ad un fascismo terza via, con le sue radici nell’imperialismo civilizzatore di Roma e nell’universalismo romano-cattolico332. Organicità che trascende il semplice conformismo e che è comunanza di valori333. Gli enti culturali sono lo strumento di espressione di questa intellettualità fascista, oltre che strumento politico: cultural-propagandistico come l’Istituto di Studi Romani, tecnico-propagandistico come l’Istituto di Studi di Politica Internazionale o eminentemente propagandistico come l’Istituto di Studi Adriatici.
A partire dagli anni ’30, nel ri-orientamento espansionista della politica estera, i nuovi istituti nascono con la duplice funzione di “ausilio per la riqualificazione degli apparati diplomatici” e per la “formazione del consenso”334; secondo un’estensione della logica con cui Giannini335 e Sforza nel ’21 hanno concepito l’Istituto per l’Europa Orientale e l’Istituto per l’Oriente336. L’ISPI di Milano (nato nel ’34 come associazione di diritto privato nell’orbita imprenditoriale) riuscirà a coniugare analisi e propaganda; anche a copertura delle carenze dell’ISA di Venezia (1932): incongruo strumento culturale, scarsamente produttivo ed essenzialmente propagandistico.
Venezia rappresenta “il luogo simbolico, prima ancora che il centro logistico, di una ricolonizzazione dell’Adriatico e dell’Egeo”337. L’ISA avrebbe dovuto essere sede qualificante – dei foscariani-volpiani – per “la costruzione dei discorsi di legittimazione della grande Venezia egemone”338. Nel ’37 con un nuovo statuto e l’arrivo di Volpi alla presidenza si chiarisce il suo ruolo propagandistico d’istituto governativo ad indirizzo politico: di “laboratorio della rivendicazione espansionista”, nell’approssimarsi dell’annessione albanese e nell’urgenza di un contenimento della “pressione tedesca”339. Strumento per tenere il fronte culturale di “un nuovo e più combattivo indirizzo di penetrazione adriatica”. Volpi340 opera, infatti, una composita sintesi ideologica tesa a sottolineare la continuità della presenza e il ruolo di potenza (stabilizzatrice?) d’area dell’Italia:
* Memore della millenaria tradizione romana, rivivificata nelle Repubbliche marinare, l’Italia è naturalmente “un gran molo lanciato attraverso il Mediterraneo sulle vie dell’Oriente e sulla grande Penisola Balcanica”;
* Mazzinianamente garante de “l’unità, l’indipendenza, l’ordinata potenza” contro ogni “sfruttamento egemonico basato su conquiste militari e su tirannie economiche”;
* E implicitamente contrastante la pressione tedesca e il suo dinamismo bellicista341.
Ogni fatale evento rappresenta un’occasione per “reinvestire nuovamente le più alate aspirazioni”, il patrimonio rivendicativo nella campagna propagandistica. Così accade nel momento dell’unione con l’Albania; così accade con maggiori aspettative ed enfasi con l’entrata in guerra e all’atto dell’annessione della Dalmazia. Mentre si argomenta il “completamento del viraggio talassocratico” – raggiunta ormai la frontiera marittima naturale dalmata (Foscari) – l’eterno irredentismo che guarda a futuri miraggi jonici e mediterranei deve subire il riscontro della realtà della Guerra: delle sconfitte militari e di una conclamata subalternità all’alleato. Subalternità che da’ il senso anche dell’incapacità-impossibilità di offrire un modello alternativo al terrore del Nuovo Ordine hitleriano342 ovvero della falsificazione dello schema volpiano.
Nella generale crisi di consenso, s’inserisce la crisi dell’ambiente (nazional-fascista) veneziano. Alla redenzione-compromesso343 e al fallimento della Rivoluzione nel Mediterraneo (ridotto a “strada di passaggio del Reich verso le proprie colonie”344) i veneziani reagiranno con l’ambivalenza di una revisione critica (delle basi storiche della mitologia imperialista adriatica345), da un lato, e dall’altro con la reiterazione di motivi retorici non sempre privi d’interesse346.
Oltre la tempesta bellica “Venezia si risvegliava dal sogno da cui anche studiosi partecipi della prima stagione dell’istituto di studi adriatici avevano messo sempre in guardia: in un mare che aveva smarrito da decenni e dopo l’ultima guerra perso per sempre la funzione tradizionale, quella Venezia era stata un’illusione che ora, senza nemmeno cercare parafrasi, queste stesse voci ribadivano aver costituito una rappresentazione fittizia per una città già da secoli priva dell’antichissimo ruolo monopolistico. Un’illusione anacronistica tanto stratificata da poter però, proprio perché tale – e a dispetto della storiografia scientifica dell’ultimo quarantennio – esser ancor oggi riesumabile e manipolabile per trovar parenti nobili alle rinnovate proiezioni economiche prospettate dal crollo dei regimi socialisti e nell’affannoso tentativo di appropriazione di alate legittimazioni da parte delle nuove élites venetiste”347.
Ideal-revisionismo, revisionismo economico,
revisionismo diplomatico
A dispetto di un’espansione retorica – a partire dall’eredità nazional-idealista e reducista – orientata (almeno fino al ‘29348) soprattutto al consenso349 interno, nella fase di ascesa e di consolidamento del regime la politica estera fascista si pone in reale continuità con gli schemi generali di periodo liberale. Similmente a quanto avviene in politica economica. I punti di svolta si origineranno a partire da una risposta reattiva a modificazioni ambientali-esterne350.
Continuità e prevalenza della politica interna, sono entrambi temi storiografici ricorrenti351. Discussa è la preesistenza (all’ascesa al potere) di un programma fascista di politica estera, inteso come sistema razionale e coerente. A partire dal quale sia cioè possibile “spiegare l’evoluzione della politica estera fascista in base a linee e tempi di sviluppo rispondenti ad un disegno politico sostanzialmente unitario e razionalmente perseguito in funzione del conseguimento di determinati obiettivi”352. Tema che ribadisce la continuità dello spregiudicato pragmatismo mussoliniano nel modello reattivo-adattivo353. L’uso demagogico della politica estera – non solo nelle sue manifestazioni più roboanti – non potrà infatti che riflettere indirettamente quegli stati d’animo354, rappresentati da una variegata pubblicistica nazional-fascista già prima del ‘22; dalla fronda massimalista nel partito; presenti a livello sociale specie nelle fasce originarie di consenso (piccolo-medio borghesi). Concezioni a lungo periferiche rispetto alle linee di politica estera ma che contribuiscono a formare una precisa visione dei rapporti internazionali e quindi ad influenzare le scelte (future) nei punti di svolta.
In quella che Santoro identifica come la quarta fase della politica estera italiana (1922-1945)355 – “della grande potenza” – in un primo ciclo (che estende fino al 1934) di marginalità relativa dei contenuti di politica estera, ai programmi di rifondazione dell’ordine internazionale non farebbe riscontro “neppure una vera politica estera revisionista” ma piuttosto una prudente e tradizionale linea filoinglese (in funzione antifrancese). Nondimeno segnalando ambizioni continentaliste. Politica balcanica-revisionista che parrebbe assumere, quindi, il carattere di precondizione, di antefatto rispetto ad una politica coloniale (come primario obbiettivo nazionale). La lettura defeliciana stessa suggerisce una visione (generale) meno radicale della politica estera fascista e dello strumento revisionista: interpretabile appunto come elemento tattico-diplomatico (tradizionale) volto ad aprire o a mantenere spazi di manovra356 e contemporaneamente come un mezzo di raccordo con i poteri economici357. L’improvvisazione demagogica sarebbe la forma, voluta, di una sostanza invece continuista. Deviazione “apparente” e progressiva dal tracciato della politica estera liberale verso l’“eteronomia reale” del secondo ciclo (1934-1945) che abbiamo definito più propriamente imperialista. Ad influenzare il cambiamento di tono l’input (reattivo) della crescente presenza tedesca. La guerra d’Etiopia diventa in quest’ottica, al contrario, “output residuale” del dato reale dell’estromissione dall’area danubiano-balcanica358.
Dall’originario, complesso, rapporto tra Germania e Italia359 al dispiegarsi del processo unitario e delle prime fasi dell’industrializzazione – d’imprinting, influenza, tentativi egemonici tedeschi e di reazioni autarchiche da parte italiana360 – negli anni Trenta i flussi commerciali-valutari avrebbero posto in atto una progressiva satellizzazione economica, poi politica; compiendo quel ciclo361 che la fase ideologica nazional-irredentista (continentalista) di completamento dell’unità nazionale aveva interrotto. A opinione di Mantelli362 lo stabilirsi di stretti vincoli economici – prima che politici – con l’incremento progressivo dell’interscambio italo-tedesco fin dal ‘29, comporterebbero infine l’inevitabilità dell’alleanza politica con la Germania hitleriana (che sarebbe, anzi, la sanzione di questo avvicinamento-compenetrazione); data l’imprescindibilità dell’opzione della politica di potenza – come aspetto caratterizzante il Regime – a cui aggiungerei la necessità, non meno presente, di sostenere il sistema economico e di alimentare le forniture: in direzione sia della sensibilità dei grandi gruppi economici che del “consolidamento della disciplina interna del paese”363. Salvo riorientarsi, in un ripiegamento interno, verso un regime autoritario (sui generis) autocentrato.
Un rapporto di dipendenza strutturale che vede nel ‘900 l’alternarsi di due partner privilegiati. Se nel primo decennio del dopoguerra (1918-1929) gli Stati Uniti364 sono il principale partner economico-commerciale italiano – in un mutato quadro in cui “l’Europa non rappresenta [più] di per sé una unità economica particolarmente significativa” – attraverso la crisi, tra il ‘29 e il ‘31 in una “dinamica di generale contrazione, l’interscambio italo-germanico diventa il più consistente in merci e valore”365.
L’accelerazione sarà data dalla svolta imperialista della Guerra d’Etiopia (‘35). Materialmente prima ancora che ideologicamente, la Germania diverrà infatti il principale fornitore delle sanzioni e dell’ “apparato autarchico”366. Rapporto di dipendenza che dal ‘36-‘38 si realizza poi pienamente nel conflitto. La dipendenza ha quindi origine nell’interscambio: a ciò che negli anni Trenta appare come un vantaggio italiano nella disponibilità di merci, corrisponde una parallela crescita dell’influenza tedesca367. Secondo l’indicato meccanismo hilferdinghiano del deficit commerciale permanente. Sulla traccia di Bonelli, però, non rappresenterebbe più che una parentesi, un punto di discontinuità in un lungo arco di “dipendenza politica” del capitalismo italiano dagli USA dal primo dopoguerra (dagli anni Venti) al boom368.
Il tentativo di autosufficienza dall’ “alleato esterno” (strutturale), all’interno del più ampio problema del finanziamento delle importazioni e dello sviluppo, datava dal liberismo giolittiano. “A seguito della guerra, invece, col mutamento del regime dei rapporti economici internazionali e dei rapporti di forza all’interno dell’area capitalistica ci si trovò a fare i conti non più con gli automatismi, ma sempre più con partner esteri”. Le due principali fasi economiche del fascismo conterranno-rappresenteranno questa transitio – tra due modelli – da un alleato (esterno) di riferimento all’altro:
* Fascismo 1: fase liberista369;
* Fascismo 2: fase autarchica370.
Proprio a partire dalla crisi economica (‘29-‘32) si svilupperebbe la reazione imperial-revisionista e il fallimento del Regime. La svolta corporativo-autarchica – lungi dall’essere quella terza via propagandata – è secondo Carocci la spia di una sua crisi generale, da cui l’involuzione imperialista-totalitaria. “La grande crisi economica spinse [quindi] il fascismo italiano verso l’involuzione e fu la pedana di lancio del nazismo tedesco. Fu l’elemento che consentì a Mussolini di rendere esplicita la sostanza imperialistica del fascismo, senza rendersi sufficientemente conto che l’imperialismo fascista poteva avanzare nella misura in cui si dispiegava il ben più potente imperialismo nazista”371.
La crisi porta altresì ad una frammentazione del mercato mondiale e ad una successiva (problematica) ristrutturazione rispetto a linee interstatali-bilaterali. Nel medio periodo, ad un’amplificazione dei fenomeni di nazionalismo e dipendenza economica.
Anche a partire da questa congiuntura si possono riconoscere alcuni elementi di razionalità economica del futuro nuovo ordine europeo, di prevedibile continuità tecnocratica tra Weimar e il Reich. Così il governo tecnico372 del centrista Brüning non è solo protagonista di una dura politica deflazionistica ma – evidentemente anche in un contraltare politico-retorico – opera per la ricostituzione di un ruolo di potenza economica e politica373: dalla centralizzazione del controllo valutario, alla costruzione di un’area valutaria comune mitteleuropea; alla ristrutturazione del commercio estero secondo un sistema di accordi di clearing, ossia attraverso la costruzione di una rete di rapporti economici complementari.
La crisi produce un’accelerazione del naturale moto di reciproca attrazione-integrazione374 tra Germania e Paesi dell’Europa centro/sud-orientale. Verso quell’economia del grande spazio che per la prima acquistava il senso dell’autosufficienza nelle forniture strategiche e per i Paesi produttori, di una plausibile e desiderata ricostruzione di uno spazio assimilabile allo spazio economico austroungarico che la ristrutturazione postbellica aveva spezzato. Oltre agli effetti diretti della crisi, una forte contrazione dei prezzi agricoli rispetto ai prodotti industriali, le economie (agricole) danubiano-balcaniche nel generale clima protezionistico ne risultano ulteriormente danneggiate: dalla chiusura dei mercati tradizionali (Francia, Italia, Cecoslovacchia) ma soprattutto del principale mercato di riferimento, la Germania375.
Con l’obiettivo dell’autosufficienza – nella disponibilità a pagare prezzi superiori a quelli di mercato, all’interno dell’area del marco – la Germania avrebbe determinato una distorsione376 nella struttura produttiva di quei Paesi, deprimendone lo sviluppo. Il rapporto si porrebbe nei termini della “dipendenza” piuttosto che dello sfruttamento377. All’indomani del ’29 la “costruzione di un’area economica nel cuore dell’Europa” rappresenta “a breve termine un obiettivo [tecnocratico] largamente condiviso”378. Nel medio-lungo periodo si pone, al contrario, l’esigenza di una reintegrazione progressiva nel mercato mondiale. Su questo tema fondamentale si consumerà inevitabilmente uno dei decisivi scontri di potere tra establishment nazional-conservatore e partito nazista, che sosterrà l’autarchia continentale collegata ad un riarmo accelerato-concentrato379. La scelta del modello economico rappresenta un tassello fondamentale del meccanismo totalitario, così come le sue leve nella preparazione del conflitto380.
Un rapporto quello con la Germania, per l’Italia tradizionalmente oscillante tra competitività e subalternità. La rinuncia ad un’opposizione all’anschluss – con la perdita del perno strategico austriaco, senza il quale non è data un’egemonia centro-europea – non può che apparire come la realizzazione del fallimento del progetto revisionista. A partire dalla nuova mediterraneizzazione-africanizzazione forzata della politica estera italiana, l’avventurismo acquisterà il senso – ancora una volta – di una reazione alla marginalizzazione. In questa forma di ricerca (nell’autoaffermazione) di crisi e di conflitti, emerge quella “contraddizione irrisolta fra una visione del ruolo nazionale basato su velleità eccessive da grande potenza da un lato, e un comportamento irrequieto da piccola potenza destabilizzante, dall’altro lato”; da cui deriverebbe la tendenza all’improvvisazione opportunistica381. L’avventurismo va letto alla luce di un duplice aspetto reattivo, interno382 ed esterno383 e del totalitarismo incompiuto384.
Nei rapporti con la politica le aspirazioni del mondo economico erano tradizionalmente indirizzate ad un maggior controllo sociale, da attuarsi attraverso la forma di un conservatorismo forte o della dittatura militare, similmente a regimi coevi385. Come a ribadire la strumentalità del sostegno e l’estraneità alle esigenze di ampliamento del consenso del fascismo; in fondo, un’estraneità ideologica e sociale della borghesia imprenditoriale. La contrarietà ad una successiva evoluzione totalitaria-imperialista del Regime che avrebbe ulteriormente ampliato i poteri e la capacità d’intervento economica dello Stato e per converso costretto ad una quanto meno relativa mobilitazione le forze economiche.
Represse le spinte innovatrici386, la svolta totalitaria si caratterizza come rafforzamento della dittatura personale387 e come accentramento e burocratizzazione clientelare del partito-regime e del sistema. In queste condizioni l’assorbimento della società civile da parte del partito e delle organizzazioni di massa – in quanto strumenti di acquisizione di risorse e di status, mezzi di promozione sociale – incrementa il consenso388 nei confronti di un “regime visto come erogatore di benefici concreti, dentro un quadro complessivo di stabilità sociale”389; non certo di un Regime che progetti una mobilitazione totalitaria, attraverso la militarizzazione della società. La campagna antiborghese, nonostante la sua funzione retorica390, da’ il senso della rottura del patto sociale391 con i ceti medi e la borghesia produttiva. Dell’opposizione latente di fronte all’approssimarsi della guerra e dell’economia di guerra che avrebbe pregiudicato i tradizionali legami dell’alta borghesia industriale col mondo anglosassone; di fronte ai segnali di una tendenza al superamento della classica “divisione funzionale tra sfera di potere e sfera di profitto”392. Le misure clientelar-assistenzialiste pur nella pretesa di un maggior controllo sociale – dell’avvicinamento da parte dello Stato e dell’inclusione nella sfera del consenso di gruppi sociali prima esclusi – producono una relativa mobilità sociale393. Una tesi evidentemente in contrasto con quella di Grifone394 sull’imperialismo fascista. La seconda fase del Regime, in un approccio pragmatico agli equilibri interni, servirebbe a vincere l’opposizione latente di esercito-monarchia, mondo economico, elementi rinnovatori.
Quanto al secondo aspetto reattivo, “le diverse ipotesi che sono state avanzate per spiegare come e perché Mussolini ponesse con forza sul finire del 1934 l’urgenza dell’impero – l’esigenza di un grosso successo di prestigio, la necessità di uscire dalla crisi economica latente con una mobilitazione di forze e la prospettiva di esportare l’eccedenza demografica italiana – hanno tutte qualcosa di plausibile. Nessuna tuttavia riesce a dare credibilmente ragione della scelta del momento più di quanto non faccia la dichiarazione stessa di Mussolini di aver voluto risolvere il problema etiopico prima che la scena internazionale fosse impegnata e assorbita nell’affrontare le ripercussioni dell’avvento al potere del nazismo e del revisionismo hitleriano”395.
L’imperialismo come mezzo di affrancamento396 che ancor più marca il salto ideologico, risulta una proiezione dell’universalismo fascista397. Un nesso strumentale legherà, quindi, politica culturale398, burocratizzazione e rafforzamento della dittatura personale399 nel rinnovato sforzo imperial-revisionista.
Negli anni dell’ascesa del fascismo ma prefascista nella genesi è la vicenda dell’Istituto per l’Europa Orientale400 (e dell’Istituto per l’Oriente401), della “diplomazia parallela della cultura” che, nata nelle stanze del Ministero degli Esteri, si svilupperà all’interno del progetto culturale gentiliano402. Diversi i presupposti ideologici – giacché diversa è la congiuntura ideologica e internazionale – da cui nascerà nel 1933 l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente403 di Giuseppe Tucci404; laddove ad un’impostazione panlatina, antipanslava e antipangermanica, razional-storicista dell’IPEO è contrapponibile una prospettiva eurasiana405 con ascendenze spiritualiste406.
La diplomazia della cultura – in virtù di una presunzione di superiorità culturale, nel magistero della romanità – avrebbe aperto, si pensava, nuovi spazi commerciali-imprenditoriali: supplendo alle carenze di un mondo economico, in evidente affanno nel confronto internazionale. In futuro ancor più manifestamente inadeguato alle ambizioni planetarie del Duce. L’estremizzazione di un equivoco idealista porterà a pensare di poter prescindere totalmente da una (marxiana) inferiorità strutturale407.
“L’interrelazione esistente fra preparazione scientifica, stampa e diplomazia”, “fra attività culturale e interessi politico-economici” – nel moto di penetrazione di Francia, Germania e Inghilterra, a colmare il vuoto geopolitico nell’Oriente europeo – emerge chiaramente tra il conflitto e i primi anni Venti408. L’IPEO (così come l’IPO) nasce nel ‘21 da un’iniziativa di Amedeo Giannini409, allora Capo Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri, nella necessità di fornire un indirizzo politico-diplomatico ad una stampa ritenuta ancora provinciale410. Un’idea ispirata – prima che agli omologhi istituti stranieri – ad esperienze culturali sulla scia dell’interventismo democratico411, accomunate dal “desiderio di unire pensiero e azione e di contribuire a costruire un’Europa rinnovata”412. Da cui deriverà il carattere ibrido dell’istituzione: di strumento di ricerca e di instrumentum regni, di strumento politico413.
Inevitabile che nel corso degli anni Trenta l’aspetto ideologico fosse destinato a prevalere su quello scientifico, specie – a ricordare la sua natura di emanazione ministeriale – in quella “naturale area di influenza ideologico-politica dell’Italia fascista”. L’iniziale riferimento all’internazionalismo mazziniano (democratico) sarà base per la costruzione di un internazionalismo fascista414. L’identificazione sarà proposta rispetto al mito panlatino, letto nazionalisticamente come alleanza (di civiltà) antipanslava. Nella prosa di un pubblicista come l’irredentista dalmata Oscar Randi415, ad esempio, assumerà quei connotati etnico-ideologici di antislavismo-anticomunismo: “Il ricorso all’iperbole e alla simbologia mitica dell’Asia – che sintetizzava in sé i poli negativi di rivoluzione, anarchia, barbarie – era la premessa per giustificare un ruolo provvidenziale dell’Italia, a difesa dell’ordine latino e a presidio dei valori occidentali” 416.
Una politica culturale quella del fascismo, fino alla svolta totalitaria (‘38) indirizzata ad assorbire anche intellettuali a-fascisti417, complementare alla diplomazia della cultura: alla creazione di un’area di consenso trasversale tra classi intellettuali italiane e straniere418. “Rintracciare […] i segni della cultura italiana” avrebbe voluto dire richiamare “la nostra influenza civilizzatrice” e offrire un “nuovo centro di gravitazione” all’Oriente europeo: naturalmente alternativo a quello “ideologico” sovietico, tedesco – che all’inizio degli anni Venti appare compromesso dalla gravissima crisi economica – o demoplutocratico anglo-francese. Un’esplicitazione delle ragioni ideologiche che sostengono l’azione diplomatica nella fase revisionista.
In questa veste l’IPEO rappresenterà le due principali linee diplomatiche-ideologiche rispetto all’Europa danubiano-balcanica, comunque tributarie dell’internazionalismo mazziniano:
* La linea antijugoslava ovvero tramite una partnership (culturale) privilegiata con la Romania forzare la Piccola Intesa e accerchiare la Jugoslavia, obiettivo ultimo del revisionismo italiano;
* La linea sforziana-contariniana della cooperazione antiasburgica (Carocci) e antitedesca.
L’offensiva neomazziniana degli anni Trenta – tornando ad una logica reattiva – secondo Stefano Santoro sarebbe da correlare all’avvento al potere del nazismo419. Rispetto al quale si porrebbe l’alternativa demo-populista italiana, riferibile al revisionismo nelle tre accezioni:
* Di categoria concettuale (reattiva) mistico-idealista, proiettata verso la dimensione universale di un nuovo ordine europeo e di una nuova civiltà imperiale420. L’allontanarsi degli obiettivi nell’autoevidenza della preponderanza tedesca, indurrà piuttosto alla reiterazione delle “stanche formulazioni retoriche”421;
* Di riferimento generale ai tentativi di revisione dello status quo europeo-europeo orientale;
* Di evento storicamente determinato (con una periodizzazione coincidente con l’aggressiva politica filoinsurrezionalista italiana: 1928-1934 422).
253 Cfr. M. PACOR, op. cit., p. 14 e ss.
254 Ibid. Al confine sull’Isonzo, a Trieste, all’Istria costiera, a Pola e Quarnaro. Più raramente a Fiume, alle isole e alla Dalmazia.
255 Cfr. G. MAZZINI, op. cit. in ivi, p. 18.: “Additate agli slavi meridionali Carlopago, Zara, Ragusa, Cattaro, Dulcigno, e dite loro, impossessandovi di quei porti, che li serbate, prezzo dell’insurrezione, per essi!”.
256 Cfr. Annibale DI SALUZZO, Le Alpi che cingono l’Italia considerate militarmente (1845); Paolo FAMBRI, L’Istria e il nostro confine orientale, “La Nuova Antologia” (1879) in G. MAZZINI, op. cit., p. 19.
257 Lett. Compromesso.
258 Serbi, Croati, Romeni e Slovacchi ricadono ora sotto l’amministrazione ungherese, mentre Serbo-croati dalmati, Sloveni, Italiani, Cechi e Polacchi restano sotto quella austriaca.
259 Cfr. Fulvio SUVICH, Memorie 1932-1936, Rizzoli, Milano 1984, pp. 207-208; cfr. Pasquale IUSO, Il fascismo e gli ustascia 1929-1941. Il separatismo croato in Italia, Gangemi, Roma 1998, p. 18: “L’Arciduca Francesco Ferdinando […] per ragioni prevalentemente dinastiche voleva creare uno stato slavo meridionale, come terzo paese della monarchia, con capitale Trieste; a tal fine occorreva che Trieste, città indiscutibilmente italiana, fosse con tutti i mezzi slavizzata; questo ricordo acuiva la sensibilità dei Triestini nelle questioni nazionali”. Cfr. Alberto DE BERNARDI-Scipione GUARRACINO (a cura di), Il fascismo. Dizionario, Bruno Mondadori, Milano 1998. Suvich, Sottosegretario agli Esteri tra il ’32 e il ’36, è il protagonista della diplomazia italiana in quegli anni: del tentativo di accerchiamento diplomatico della Germania e quindi della politica austriaca, degli accordi Mussolini-Laval, della Conferenza di Stresa. Il suo allontanamento – in ragione proprio dell’opposizione ad un’alleanza con la Germania – e l’arrivo di Galeazzo Ciano segnano l’effettivo passaggio alla seconda fase della politica estera fascista.
260 M. PACOR, op. cit., p. 24: “Proprio nel momento in cui, in diverse condizioni, il Partito d’Azione avrebbe forse potuto acquistare il carattere di un più vasto movimento popolare, esso si sgretolava con il rientro di buona parte dei suoi esponenti nell’ambito della loro classe, per governare l’Italia secondandone gli interessi di classe dominante privilegiata, e con il passaggio di quanto esso aveva avuto di base popolare e di avanguardia culturale nelle file del nascente movimento socialista”.
261 Ivi p. 25; G. PROCACCI, op. cit., p.407, 420: Il crispismo stesso – per Pacor – è la sanzione di un’ “alleanza di classe tra gli industriali del nord e i latifondisti del sud”. Patto (trasformistico) “tra i ceti borghesi dell’Italia settentrionale e i galantuomini del Mezzogiorno” che Procacci data, quindi, dall’ascesa stessa della sinistra. Entrambi gli autori fanno evidentemente riferimento al gramsciano “blocco agrario-industriale delle classi dominanti italiane”.
262 Cfr. Nota 271; F. CHABOD, Storia della politica…; Franco CATALANO, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, Feltrinelli, Milano 1962 in M. PACOR, op. cit., p. 14 : “Nella storia dell’Italia dall’unità in poi tutte le volte che nella nostra politica estera sono prevalsi gli interessi della frontiera alpina e delle terre irredente, ci siamo trovati più vicini alla Francia e all’Inghilterra, mentre tutte le volte che sono prevalsi gli interessi mediterranei e coloniali abbiamo dovuto necessariamente assumere un atteggiamento filotedesco”.
263 Cfr. M. PACOR, op. cit., p. 26: “Quanto al Trentino e alla Venezia Giulia, se ufficialmente e soprattutto all’interno bisognava ignorarli, sotto banco i circoli governativi alimentavano l’irredentismo non più sovversivo ma ormai monarchico e di destra d’oltre confine”.
264 Cfr. E. GENTILE, op. cit., p. 141: “Dissociato dall’ideologia socialista, e spostandosi dalla dimensione sociale alla dimensione nazionale, il nuovo nazionalismo rivoluzionario rielaborò, utilizzando anche il pensiero mazziniano e i miti del radicalismo nazionale, una concezione della rivoluzione come processo di palingenesi nazionale, che doveva rinnovare radicalmente non solo l’assetto politico, economico e sociale, ma anche la cultura, la mentalità, il carattere, portare alla costruzione di uno Stato nuovo e alla creazione di un italiano nuovo, senza però rinunciare alla vocazione universalistica, che dall’internazionalismo socialista fu trasferita al mito della Grande Italia”.
265 Ivi, op. cit., p. 194: “Il fascismo riteneva di superare l’imperialismo tradizionale del dominio e dell’asservimento con l’idea della comunità imperiale, in cui piccoli Stati e piccole nazioni avrebbero dovuto volentieri associarsi per ruotare nell’orbita di una grande potenza irradiante i principi di una nuova civiltà. Il sole di questo nuovo sistema sarebbe stato, naturalmente, l’Italia fascista, in virtù della vocazione universalistica della sua civiltà”.
266 Cfr. L. GARRUCCIO, op. cit., p. 297 e ss.; Walt W. ROSTOW, The stages of economic growth: a non-communist manifesto, Cambridge University Press, Cambridge 1960.
267 Sintetizzato nella contrapposizione tra Italia produttiva e Italia politica, e nelle intenzioni intercettato dai nazionalisti.
268 Cfr. Richard N. ROSECRANCE, Action and reaction in world politics: international systems in perspective, Little-Brown, Boston 1963; C. M. SANTORO, op. cit., p. 88.
269 Cfr. Ludwig VON MISES, Omnipotent Government. The rise of the total State and total war (1944), Libertarian Press, Spring Mills (PA), 1985, p. 46 (Cap. III, Par. 1: "Etatism. The new mentality").
270 Cfr. R. N. ROSECRANCE, op. cit., p.304 e ss. Secondo il politologo americano, esiste “una correlazione tra l’instabilità internazionale e l’insicurezza delle élite interne”.
271 Cfr. C. M. SANTORO, op. cit., p. 47 e ss. (Cap. III: “Le costanti . Il fattore geografico”).
272 Cfr. Filippo Maria PALADINI, Velleità e capitolazione della propaganda talassocratica veneziana (1935-1945), “Venetica”, 6, 2002, L’Italia chiamò. Memoria militare e civile di una regione, p. 147-172.
273 Cfr. Arminio BRUNNER, L’espansione finanziaria all’estero in Atti del convegno nazionale per l’espansione economica e commerciale all’estero, Trieste, 1924, p. 70; cfr. Anna MILLO, L’élite del potere a Trieste: dall’irredentismo al fascismo, “Società e storia”, 1987, 36, p. 360: “Nel triangolo costituito da Roma capitale politica, da Milano capitale economica e da Trieste, spetta a quest’ultima il compito di armonizzare il ritmo sempre più crescente della vita economica e politica del paese ai fini della nostra penetrazione politica ed economica nell’Europa centrale e orientale […] la linea del 45° parallelo dovrebbe diventare l’asse principale della vita economica italiana”. Ibid., Un porto fra centro e periferia (1861-1918) in Friuli-Venezia Giulia. Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, Einaudi, 2002.
274 A. MILLO, op. cit., p. 360.
275 Cfr. Ernesto BRUNETTA, Dalla grande guerra alla Repubblica. L’ascesa del fascismo in Il Veneto, Einaudi, Torino 1984, p. 937, 943; Marco FINCARDI; Gli anni ruggenti del leone. La moderna realtà del mito di Venezia, “Contemporanea”, IV, 2001, 3, pp. 445-474. Fa eccezione la decisa opposizione del fascio veneziano ai foscariani; un elemento dello scontro tra la fronda movimentista (che in Veneto è ancora maggioritaria) – contraria alla trasformazione del movimento in partito e fedele ad una visione interclassista – e la direzione nazionale. Pietro Marsich, il carismatico capo del fascio cittadino, infatti, frattanto ha manifestato il proprio dissenso in una violenta lettera alla direzione nazionale del partito (“infausta dittatura di un uomo solo”). Giurati (anch’egli ex radicale e ormai ex dannunziano) al comando del fascismo veneto, costringerà il Segretario alle dimissioni. Pur sconfitta, una fazione insularista (localista) anti-industrialista perdurerà nel fascismo veneziano; trovando spazio nella macchina mobilitativa dell’OND e in una mitologia tradizional-folcrostica legata al rilancio turistico.
276 Cfr. Giuseppe LONGHI, “Venezia e i piani urbanistici”, 1/4/06, Convegno ANCSA (Gubbio, 8 novembre 2004). Longhi legge la lunga storia della modernizzazione di Venezia, come un fenomeno di “intrusione-omologazione” coloniale di gruppi d’interesse esterni (a matrice europea, lombardo-piemontese e di terraferma) sovvertitrice dell’ordine sociale e ambientale. Teorizzando in tal modo come un’estraneità della città alla modernità o meglio l’estraneità al modello di modernità veteroindustriale-intrusivo.
277 G. L. FONTANA - G. ROVERATO, op. cit., p. 530. Cfr. Andrea Filippo SABA, La Società commerciale d'Oriente fra diversificazione e instanze strategiche. 1902-1935 (La Società Commerciale d'Oriente entre la diversificación y la situación estratégica internacional. 1902-1935) in Historia Empresarial, “ICE - Informacion Comercial Española”, Gennaio 2004, 812, pp.137-151, 1/4/06, http://www.revistasice.com/cmsrevistasICE/pdfs/ICE_812_137-151__6072F295147631BDFD90C92ED0EE1CC2.pdf. Saba definisce la Società Commerciale d’Oriente come la prima multinazionale italiana.
278 Cfr. H. James BURGWYN, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Feltrinelli, Milano 1979, p. 20.
279 Mario ISNENGHI, La cultura in Emilio FRANZINA, Venezia, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 403. Cfr. F. M. PALADINI, op. cit., p. 153.
280 Cfr. C. M. SANTORO, op. cit., p. 157 e ss.
281 Cfr. M. PACOR, op. cit., p. 18.
282 Cfr. R. A. WEBSTER, op. cit., p. 579.
283 Ivi, p. 169.
284 Cfr. Nota 268.
285 Cfr. F. M. PALADINI, op. cit., p. 147.
286 C. M. SANTORO, op. cit., p. 134.
287 Convenzione italo-franco-inglese sull’Etiopia.
288 C. M. SANTORO, op. cit., p. 138.
289 F. M. PALADINI, op. cit., p. 148.
290 Cfr. R. A. WEBSTER, op. cit., p. 580.
291 E. GENTILE, op. cit., p. 76 e ss.
292 Ivi, p. 86: “L’ideologizzazione della nazione, coinvolgendo un’area sempre più vasta della cultura e della politica italiane nella competizione per rivendicare la rappresentanza della vera Italia, produsse un’acutizzazione dell’antagonismo radicale fra le due Italie ed esasperò la loro reciproca incompatibilità, ponendo così le condizioni per la trasformazione del conflitto politico in potenziale o aperta guerra civile, come accadde nel 1919-22 e, crollato il fascismo, nel 1943-45”.
293 Cfr. Federico CHABOD, L’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1961, p. 25.
294 Cfr. Grazia TATÒ, Deputazione di Borsa poi Camera di Commercio e d’Industria di Trieste. Inventario 1755-1921, Archivio di Stato di Trieste, 2000, p. 2 e ss.: “Le misure economiche a favore del porto di Trieste si inserivano in un vasto progetto di modernizzazione e rafforzamento del potere statale esteso al complesso dei possedimenti asburgici e determinarono la progressiva uscita di scena del patriziato cittadino, scalzato dal ceto emergente della borghesia mercantile. A causa di mancanza di capitali, la vecchia élite non era in grado di cogliere le nuove opportunità di guadagno offerte dall'intensificarsi dei traffici: la possibilità di un'integrazione nel ceto mercantile le rimase, quindi, preclusa. Data la scarsa redditività dei fondi agricoli nei dintorni della città, che assieme all'estrazione del sale rappresentavano la principale fonte di sostentamento delle famiglie patrizie, esse non disponevano, infatti, di surplus significativi da investire in imprese di tipo commerciale”. Concesso nel 1719 da Carlo VI e nel 1766-69 esteso da Maria Teresa all’intero territorio cittadino (alla cintura di borghi) che diventa un unico emporio.
295 Cfr. A. MILLO, op. cit., p. 335.
296 Come principale porto imperiale, a partire dalla seconda metà dell’800 Trieste si trova progressivamente al centro di un notevole reticolo infrastrutturale. Rispetto ad una futura strategia unitaria austro-tedesca (cfr. Nota 170, 171, 172), infatti, l’avvio della costruzione del Porto Vecchio (1868) è nel segno della concorrenza ai porti nordici; potenziamento reso ancora più necessario dall’apertura del Canale di Suez (1869). La Sudhbahn (Ferrovia Meridionale), così battezzata dopo l’acquisto nel 1860 da parte del Gruppo Rothschild, nel 1857 collega finalmente Trieste a Vienna (via Lubiana e Graz); l’anno seguente il portò movimenterà 3 mln q di merci. Sono del 1863 i primi progetti per una linea ferroviaria da Trieste verso la Rudolfbahn (Ferrovia Rudolfiana) che collegherà Vienna al Lago di Costanza (via Innsbruck) e a Monaco (via Salisburgo). Nel 1879 entra in funzione la Pontebbana (o Ferrovia del Predil) che da Udine (e da Trieste via Monfalcone) s’innesta anch’essa sulla Rudolfiana. Nel 1906, infine, ultimata la Galleria dei Tauri, la Wocheinerbahn (o Ferrovia Transalpina) collega Trieste a Villach (via Gorizia), connettendosi alla Tauernbahn (Ferrovia dei Tauri) da Villach (via Salisburgo) a Monaco e alla Karawankenbahn (Ferrovia delle Caravanche) da Villach (via Pyhrnbahn) verso Praga.
297 Cfr. A. MILLO, op. cit., p. 344. Dal 75 a 50 % dei consensi, con una crescita dell’elettorato attivo da 8000 a 32000 persone nel 1913.
298 Cfr. Nota 96.
299 Cfr. G. TATÒ, op. cit., pp. 4-6: “La Borsa fu lo strumento principale dell'autoaffermazione, non solo economica del ceto mercantile cosmopolita che il potere centrale considerava interlocutore privilegiato al quale rivolgersi per decidere la propria politica commerciale. [...] Quando, nel 1838, Trieste riottenne un Consiglio, dei quaranta consiglieri previsti, la maggior parte erano commercianti o industriali in possesso di requisiti patrimoniali uguali a quelli richiesti per l'ammissione in Borsa [...]. Poiché la città aveva legato i suoi destini al successo economico del suo porto e dei suoi traffici, l'autorevolezza del ceto mercantile non poteva che ritrovarsi espressa nelle sue istituzioni e, quindi, anche nel Consiglio Municipale che degli interessi preminenti della città doveva essere rappresentante. Organismo principale di espressione e tutela degli interessi mercantile e interlocutrice privilegiata del governo centrale e dei suoi organismi periferici in materia economica restava, comunque la Borsa. [...] L'élite economica diventa vera élite quando è anche realizzata in termini di posizione istituzionale, perché sono le istituzioni che danno gli strumenti per esercitare il potere e rendere stabile il prestigio economico e la ricchezza. Il prestigio ed il potere raggiunto dal gruppo mercantile imprenditoriale nell'Ottocento troveranno il loro momento di crisi nel costituirsi di nuovi gruppi sociali che, sulla spinta di motivazioni politiche e nazionali, avrebbero portato alla fine della stessa appartenenza di Trieste all'Impero Asburgico”.
300 Cfr. Roberto BAGLIONI, L’archivio Arnoldo Frigessi di Rattalma, “Archivi e imprese”, VIII, 1997, 15, pp.155-174.
301 Cfr. A. MILLO, op. cit., p. 337.
302 Ivi, p. 354.
303 Ivi, p. 356 e ss.: “Una operazione di italianizzazione del capitale delle terre redente che non nasconde più ampie velleità imperialistiche, autorevolmente appoggiata in sede governativa. La RAS, in cui prevalente era stato il peso della finanza austro-tedesca, muta la propria collocazione nazionale stringendo un’alleanza con il Credito italiano e riuscendo tuttavia a mantenere, in una certa misura, i legami precedenti, proprio attraverso una consociata del Credito, la Banca di Credito Italo-viennese. Rafforzano invece i propri rapporti con la finanza italiana le Assicurazioni generali, in cui acquista ora rilevanza la già precedente presenza del Gruppo Volpi e della COMIT. Con una brillante operazione la Banca Commerciale Triestina, forziere della finanza giuliana (RAS, Generali, finanziarie di famiglia: Brunner, Economo, Cosulich) riesce ad assicurarsi, dopo aver compiuto un notevole sforzo di ricapitalizzarsi con forze proprie ed associandosi con un pool di banche private italiane capeggiato dalla casa Parisi [finanzieri di ambiente romano], l’assorbimento delle filiali giuliane di due tra i maggiori istituti di credito viennesi, il Credit Anstalt e il Wiener Bank Verein [a cui era precedentemente collegata], e dei relativi portafogli titoli”. Cfr. R. BAGLIONI, op. cit., p.157 e ss.: “Nell’agosto 1918, Frigessi [Direttore Generale della RAS] fu uno dei maggiori protagonisti del patto di sindacato fra élite triestina e vecchia élite austriacante per mantenere il controllo della Banca Commerciale Triestina (presieduta da Giovanni Scaramangà), al centro di tutti gli interessi industriali e finanziari della piazza giuliana. Ma la corsa all’accaparramento del capitale azionario detenuto dalle banche austriache e tedesche, guidata dal Ministro del Tesoro Bonaldo Stringher, fu tale da far fallire quel tentativo di strenua difesa, imponendo l’uscita di scena del Wiener Bankverein, liquidando la Credit-Anstalt e spianando la strada verso la conquista dei gruppi industriali-armatoriali Cosulich e Lloyd Triestino da parte della Banca Commerciale Italiana di Giuseppe Toeplitz, del gruppo Cini-Volpi, del Credito Italiano e dell’Ansaldo-Bis”.
304 Ai fascisti giuliani andranno cospicui e decisivi finanziamenti.
305 Ivi, p. 360.
306 Ibid.; cfr. Nota 265.
307 Da tempo in conflitto con la SADE di Volpi (e con i suoi luogotenenti nazionalisti, Segré Sartorio e Segre) per il monopolio dell’elettricità nell’area.
308 Ivi, p. 373. Ad eccezione del settore assicurativo che continuerà ad avere il proprio centro a Trieste, alcuni grandi nomi dell’imprenditoria giuliana integrati nei nuovi organismi dirigisti (Teodoro Mayer alla Presidenza dell’IMI, Camillo Ara alla Presidenza della SOFINDIT e alla Vicepresidenza dell’IRI) saranno presto allontanati (alla metà degli anni trenta). Troppo presto, afferma la Millo, per “prefigurare un vero e proprio inserimento nell’élite nazionale”; per poter incidere sui programmi di penetrazione economica.
309 Ivi, p. 363.
310 Cfr. G. L. FONTANA-G. ROVERATO, op. cit., p. 546. “Dai luoghi dei più antichi insediamenti lo sviluppo si diffuse dunque a macchia di leopardo, secondo percorsi non preordinati, portando il Veneto a collocarsi, alla data del censimento industriale del 1911, al terzo posto dopo la Lombardia il Piemonte per numero di occupati nel settore secondario. Gli addetti all’industria nelle due province di Vicenza e Venezia si aggiravano intorno al 32% (concentrati soprattutto nei due poli dell’Alto-vicentino e della città lagunare), seguiva il Veronese con il 27% e Padova con il 23%. Gli addetti all’industria delle altre province si attestavano intorno al 20%”.
311 Ivi, p. 537. Cfr. Luciano CAFAGNA, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989.
312 Ivi, p. 543: “Nel reticolo delle infrastrutturazioni territoriali, le ferrovie estesero ed infittirono la rete creatasi a partire dall’asse longitudinale della Milano-Venezia al quale si raccordarono le prime diramazioni verso nord (Verona-Bolzano e Venezia-Casarsa) e quella verso sud che univa la piazzaforte militare di Verona con quella di Mantova. Nel periodo asburgico, esigenze militari si combinarono con la necessità di collegare le maggiori città del Lombardo-Veneto tra di loro e con il porto veneziano. Dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia l’amplificazione della rete dai capoluoghi provinciali ai centri minori supportò i disegni di sviluppo che investivano ampie porzioni del territorio regionale. La rete ferroviaria facilitò la diffusione industriale nella fase di passaggio tra il consolidamento dei settori tipici della prima onda e l’avvento delle industrie del second wind. In generale, la ferrovia, con i suoi intrecci e ramificazioni, indusse anche importanti fenomeni di trasformazione urbanistica, in particolare proprio nelle piccole e medie città interessate dallo sviluppo industriale”.
313 Ivi, p. 531: “Questi due poli, separati tra loro dalla vasta pianura agricola del Veneto centrale, avevano innescato effetti diffusivi dell'imprenditorialità, sia nell'imitazione delle produzioni della manifattura tessile e nell'avvio della meccanica leggera – poi esplosa negli anni del miracolo – sia nella crescita di un indotto a servizio della grande impresa formatasi attorno al porto industriale veneziano”.
314 Ivi, p. 548: “Anche se si insediò come corpo estraneo nel più generale contesto agricolo dell'area veneta, vi germinò effetti moltiplicatori per i decenni a venire e di integrazione con settori-chiave dell'industria nazionale (la chimica, l'alluminio, l'industria pesante)”.
315 Cfr. Cesco CHINELLO, Foscari Piero in DBI, Treccani, Roma 1997, vol. XLIX, pp. 338-340. Presidente del Sindacato italo-montenegrino (1903) e consigliere fondatore della SADE (1905). Presidente veneziano della Trento e Trieste (1903), membro del congresso costitutivo dell’ Associazione Nazionalista Italiana (1910) e presidente del secondo (1912). Deputato (1909, 1913, 1919) e capogruppo nazionalista in Parlamento. Ufficiale di Marina nella Guerra di Libia; comandante della difesa antiaerea di Venezia; Sottosegretario alle Colonie nel Governo Boselli (1916); finanziatore e legionario dell’impresa fiumana. Presidente con Federzoni dell’ultima seduta del Comitato Centrale Nazionalista che delibera la fusione col Partito nazionale fascista (1923).
316 Cfr. Piero FOSCARI, Studio per un programma finanziario e di lavori nella città di Venezia (1902); Il porto di Venezia nel problema adriatico (1904) in C. CHINELLO, ibid.
317 Cfr. Vera ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, Il Mulino, Bologna 2003, p. 375; Mirko ROMANATO, Appunti per un secolo di storia di Porto Marghera, “Annali CSEL”, 2003, 4, pp. 37-58, 1/4/06, http://www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/libri/annale4/cap_2.pdf; Maurizio REBERSCHAK, Cini Vittorio in DBI, Treccani, Roma 1981, vol. XXV, pp. 625-634; G. LONGHI, op. cit.; C. CHINELLO, ibid. Secondo la visione di Longhi che abbiamo proposto, Marghera rappresenta il momento centrale di una lunga fase industriale; di modernizzazione coerente ad un unico modello. Un momento di una parabola intrusiva che, iniziata in periodo napoleonico, si sarebbe compiuta nell’attuale fase di deindustrializzazione. Sulla scia di questo processo-dibattito – che conosce sotto l’amministrazione austriaca l’inizio dell’infrastrutturazione moderna e la nascita dei primi impianti industriali (per mano straniera) – è Piero Foscari ad imprimere, nella sua veste di consigliere comunale e di notabile, “un’impostazione dinamica al dibattito sul futuro di Venezia” (Chinello); per la prima volta ad aggregare intorno ad un progetto modernizzatore, un gruppo d’interessi in parte rappresentativo della vecchia aristocrazia. Non è avulso da questa svolta, con tutta probabilità, il ruolo patrocinatore che la Commerciale assumerà rispetto ai veneziani. Foscari dunque rivoluziona – a partire dallo Studio per un programma finanziario e di lavori nella città di Venezia del 1902 e dalla conferenza Il porto di Venezia nel problema adriatico (sulla traccia del Progetto Petit, a suo volta rielaborazione del Piano Regolatore di Risanamento per la città di Venezia del 1891) – il dibattito, introducendo il tema della rifunzionalizzazione attraverso l’espansione del porto (verso Marghera). Nel 1905 verrà, infatti, approvato (dalla Commissione Ministeriale per lo Studio dei Piani Regolatori dei Principali porti del Regno) un primo progetto dell'Ing. Cucchini che prevede la costruzione di un nuovo porto commerciale appunto nell’area Bottenighi-Marghera. Il 1 febbraio 1917 si costituisce un Sindacato di Studi per Imprese Elettro-metallurgiche e Navali nel Porto di Venezia; la ragione sociale delle imprese che confluiscono nel sindacato (SADE, Cellina, Società Veneta per Costruzioni ed Esercizio Ferrovie Secondarie, Società Veneta di Navigazione a Vapore) nonché nomi come Piero Foscari (frattanto nominato Sottosegretario alle Colonie), Nicolò Papadopoli Aldobrandini, Gino Toso, Antonio Revedin, suggeriscono un obiettivo ambizioso: che si voglia creare un complesso industriale di cui i membri del sindacato siano contemporaneamente fornitori e clienti. In maggio il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici approva il progetto dell'Ing. Coen Cagli (Porto di Antivari), di un porto industriale e non più commerciale. Il 12 giugno, Volpi trasforma il sindacato in anonima con la Società Porto Industriale di Venezia, di cui deterrà il pacchetto di controllo (Stucky, Toso, Revedin, Papadopoli, Almagià, Ceresa, Ratti). Il 23 luglio, la nuova società ed il Governo firmano una Convenzione con cui la prima ottiene l'esecuzione delle opere, la gestione dei servizi portuali e alcuni poteri eccezionali fra cui l'incarico di procedere alle espropriazioni; il Comune di Venezia, che ha ottenuto l’inclusione di Marghera nel territorio municipale, dovrà per contro provvedere all’urbanizzazione dell’area. Viene emanato il “Decreto Luogotenenziale 26 luglio 1917, n. 1191 - Provvedimenti per la costruzione del nuovo porto di Venezia, in regione Marghera”. Il 27 settembre viene costituita la Società Cantieri Navali e Acciaierie (Terni, Ilva, Piombino, Ansaldo, Officine Miani e Silvestri, Cantieri Riuniti, Franco Tosi); il Consiglio di Amministrazione (Max Bondi, Dante Ferraris, Pio Perrone, Rocco Piaggio, Giuseppe Orlando, Giovanni Silvestri, Eugenio Tosi) è presieduto, naturalmente, da Volpi. Sfruttando l’art. 14 del decreto sui sovraprofitti di guerra – che permette l'esenzione dalla sovraimposta "a condizione che i contribuenti investano nell'acquisto o nella costruzione di navi mercantili una somma quadrupla dell'ammontare della sovraimposta straordinaria di guerra che sui redditi sovraindicati sarebbe dovuta" – Marghera realizza un’enorme evasione legalizzata.
318 Foscari, Volpi, Papadopoli, Cini, ecc.
319 Cfr. C. CHINELLO, op. cit., p. 339. Iniziative di questa portata si muovono spesso sul, difficilmente individuabile, confine tra strumentalizzazione ideologica e reale identificazione. L’idea del nuovo porto si inquadra, in un progetto industriale (prima che ideologico) complessivo che ha come scenario l’area adriatica e centrali industriali-finanziarie – il Sindacato Italo Montenegrino (1903), la Compagnia di Antivari (1905), la SADE (1905), la Società Commerciale d’Oriente (1907) – alcune società nell’orbita COMIT. Un progetto che “da un lato, aveva le radici materiali nella fase di forte espansione dell’economia italiana nel primo decennio del secolo – che segnò il decollo industriale dell’Italia nel sistema politico giolittiano nel cui ambito si formò il gruppo dei veneziani capitanato dal Foscari e da Giuseppe Volpi e sostenuto dalla Banca Commerciale Italiana – e, dall’altro, basava le sue politiche nell’imperialismo industriale italiano, cioè la mira espansionista nei Balcani con il supporto di una politica estera italiana attiva nelle due facce di irredentismo e di lotta per il controllo dell’Albania”.
320 La frattura provocata dai piani di modernizzazione spinge, invece, a teorizzarne l’estraneità rispetto alla città.
321 Con la sua espressione più estrema del manifestino futurista “Contro Venezia passatista” (27 aprile 1910): “Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico, gran lago italiano. Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi. Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l'imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture”.
322 Cfr. E. BRUNETTA, op. cit., p. 937. Ciò che si riscontra nelle vicende del fascio veneziano è piuttosto l’incapacità-l’inadeguatezza delle forze politiche tradizionali di dar rappresentanza alle istanze, alla domanda democratica, proveniente dalla borghesia interventista. “Il dramma della democrazia radicale […] priva del suo naturale alleato a sinistra, ma non […] disposta a rifluire a destra verso un blocco a conduzione liberale. Sta qui la radice del primo fascismo, che perciò stesso non può che essere un fenomeno urbano”. Brunetta per il Veneto opera un’interessante distinzione – che può assurgere a categoria di valenza generale – tra fascismo urbano (di origine interventista radicale-democratica e reducista), minoritario, e fascismo agrario (squadrista-padronale) che comincia ad essere prevalente a partire dalle lotte contadine del ‘20.
323 Cfr. Marcello CARLINO-Piero CRAVERI, D’annunzio Gabriele in DBI, Treccani, Roma 1986, vol. XXXII, pp. 626-655: “Prima e più di alcun altro in Italia, aveva saputo interpretare ed esprimere l’atmosfera della crisi di fine secolo che attraversava tutta la cultura europea, e si era mostrato abile a raccoglierne qui e là tutti gli sparsi elementi, a smontarli e rimontarli, in abili e suggestivi messaggi. Si è parlato del miracolo, compiuto dal D’Annunzio, di forzare ad una circolazione culturale di massa una serie di miti che, nella loro sostanza, erano tipicamente elitari e antidemocratici (Asor Rosa). Ma questo miracolo da più di mezzo secolo era stato largamente compiuto dalla letteratura tardoromantica europea, e aveva improntato di sé la cultura dei nuovi ceti medi. In Italia non era stato propriamente così, per il legame stretto che la cultura romantica aveva avuto con la questione nazionale. Ora, proprio il D’Annunzio, nel riproporre con ritardo questo tema, operava una delle più emblematiche fratture con la cultura del Risorgimento”.
324 Silvio LANARO, La genealogia di un modello in Il Veneto, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-96; cfr. F. M. PALADINI, op. cit., p. 149.
325 F. M. PALADINI, op. cit., pp. 150-151. Cfr. Gino DAMERINI, Un quadro di Venezia nel momento attuale, “Il dovere nazionale”, 15 novembre 1914; Ibid., Le Isole Jonie e il sistema adriatico dal dominio veneziano a Buonaparte, ISPI, Milano, 1943, p. 186.
326 Ivi, pp. 151-152: Nell’Italia fascista – erede e continuatrice di Roma e Venezia (Damerini) – il mito romano si identificherà con la retorica militar coloniale (africana), nello zenit del consenso della Guerra d’Etiopia; laddove la “mitizzazione della Serenissima signora dei mari come tramite tra Roma e Terza Italia accompagnò e corroborò quella della romanità imperiale nella missione mediterranea e a paludamento retorico delle prospettive espansionistiche degli ambienti industriali e commerciali veneziani e di alcune espressioni della politica estera nazionalista e fascista: gli intellettuali veneziani e gli istro-veneto-dalmati gravitanti attorno a Volpi e al senatore Francesco Salata divennero, in differenti momenti, altrettanti amplificatori delle ragioni ideali e politiche non solamente delle facili rivendicazioni sull’Albania e sulla Dalmazia, ma anche dell’imbarazzante campagna di Grecia”.
327 Vincenzo GIOBERTI, Del primato morale e civile degli italiani (1843), vol. I, UTET, Torino 1946, pp. 44, 67-72. Cfr. Emilio GENTILE, op. cit., pp. 43-51.
328 Cfr. Pietro DE FRANCISCI, La guerra e la pace nel mondo antico, Bocca, Torino 1901; cfr. Gaetano GASPERONI-Giuseppe TUDERTINO (a cura di), Dall’Impero Romano all’Italia imperiale, Mondadori, Milano 1926, pp. 25-32 (p. 30): “[Il] più miracoloso sistema di idee-forze e di valori che abbia visto la storia: un sistema che si realizza in un poderoso blocco di energia attiva organizzata, la cui potenza conquistatrice ed espansiva, oltreché nel coordinamento sapiente di elementi materiali, ha la sua radice nella virtù edificante di una disciplina religiosa e giuridica che domina tutta la realtà, che esalta il valore etico della vita quale mezzo per il raggiungimento di fini che trascendono l’esistenza dell’individuo, che è scuola di sacrificio e di eroismi, che afferma il diritto alla potenza in quanto è propagatrice di civiltà, che, con la sua conquista, rivelatrice di orizzonti sconosciuti, largisce veramente, secondo scriveva Plinio, l’umanità agli uomini”.
329 Cfr. F. CHABOD, Storia della politica estera…, pp. 215-375 (293-303); Mario ISNENGHI, Il mito della potenza. Il mito di Roma in Angelo DEL BOCA-Massimo LEGNANI-Mario G. ROSSI (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Laterza, Roma 1995, pp. 139-150 (148-150); Emilio GENTILE, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari 1993; Luciano CANFORA, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 57-103; Gioacchino VOLPE, Fascismo in Enciclopedia Italiana (1925), Treccani, Roma 1932, p. 858, 875.
330 Cfr. E. GENTILE, Il culto…, pp.146-154: “Il mito della romanità, prima ancora di essere esaltato dal fascismo per dar lustro alle sue conquiste coloniali, si era introdotto nella cultura fascista principalmente per legittimare le sue aspirazioni totalitarie a istituire una nuova religione dello Stato”. Cfr. Ibid, Il mito dello Stato nuovo, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp.240-241; Ibid., La Grande Italia…, p. 149 e ss.
331 Cfr. M. ISNENGHI, op. cit., p. 149.
332 Cfr. L. CANFORA, op. cit., p.79; G. CAROCCI, op. cit., p. 33. Una matrice classicista clerico-fascista che trova espressione, ad esempio, nell’Istituto di Studi Romani; alla caduta del Regime quello stesso primato spirituale dell’universalismo cattolico, si può ipotizzare sia servito da aggregante anticomunista (per una scoppoliana maggioranza ex-attendista). Cfr. Pietro SCOPPOLA, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991; Gian Enrico RUSCONI, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 45-99 (63-66).
333 Ivi, pp.72-73. Si pensi alla figura di Pietro De Francisci, l’autorevole quanto compromesso romanista italiano.
334 F. M. PALADINI, op. cit., p. 152.
335 Amedeo Giannini, capo dell’ufficio stampa del Ministero degli Esteri tra il ‘20 e il ’23.
336 Cfr. Stefano SANTORO, Cultura e propaganda nell’Italia fascista: l’Istituto per l’Europa Orientale, “Passato e presente”, XVII, 1999, 48, pp. 55-78.
337 Marco FINCARDI, op. cit., p. 449.
338 F. M. PALADINI, ibid. In realtà mantenendo “a lungo una fisionomia volontaristica” caratterizzata da “ricerche solo teoricamente puntuali [e] spesso segnate da un’improvvisazione altisonante”.
339 M. PACOR, op. cit., p. 129.
340 Cfr. Giuseppe VOLPI DI MISURATA, Ricordi e orizzonti balcanici. Conferenza tenuta a Milano il 23 aprile XV nella sala dell’Alessi a Palazzo Marino per invito dell’ISPI, “Rassegna di politica internazionale”, IV, 1937, 6,pp. 443-460; cfr. F. M. PALADINI, op. cit., pp. 159-160.
341 Un artificio retorico-ideologico che riverbera, probabilmente, i “dubbi” degli ambienti finanziari sulla possibilità di un reale coinvolgimento italiano nel conflitto; oltre ad una diffusa apatia-ostilità nei confronti del Patto: sbilanciatissima e iniqua alleanza. Cfr. Simona COLARIZI, L’opinione degli italiani sotto il regime (1929-1943), Laterza, Roma-Bari 1991, p. 258 e ss.; cfr. F. M. PALADINI, ibid.
342 Cfr. Enzo COLLOTTI, La politica dell’Italia nel settore danubiano balcanico dal Patto di Monaco all’armistizio italiano. L’Intervento in guerra dell’Italia. L’aggressione alla Grecia e la spartizione della Jugoslavia in Enzo COLLOTTI-Teodoro SALA-Giorgio VACCARINO, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, INSML, Milano 1967, pp. 20-37 (p. 26).
343 Ivi, p. 32, 35. Trattato (italo-croato) di Roma (18 maggio 1941).
344 Cfr. F. M. PALADINI, op. cit., p. 169; cfr. Paul SCHMIDT (a cura di), Rivoluzione nel mediterraneo, ISPI, Milano 1942.
345 Cfr. Roberto CESSI, Il problema dell’Adriatico, “Rivista marittima”, maggio 1922, pp. 3-4; Ibid., La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Cedam, Padova 1943.
346 Cfr. F. M. PALADINI, op. cit., pp. 167-172; cfr. Relazione del Senatore Francesco Salata sul disegno di legge: “Stato di previsione della spesa del Ministero degli affari esteri per l’esercizio finanziario dal 1 luglio 1943-XXI al 30 giugno 1944-XXII […]” in Senato del Regno, La politica estera italiana nella guerra e nella pace. Relazione del Senatore Francesco Salata. Discorso del Sottosegretario di Stato agli Esteri Giuseppe Bastianini, 9 e 19 maggio 1943, Roma 1943, pp. 7-79. Il Senatore dalmata propone di “aggiornare il sistema federativo con funzione pelasgica dell’esperienza veneziana”.
347 F. M. PALADINI, ibid.; cfr. R. CESSI, ibid.
348 Cfr. Nota…
349 Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il duce. 1. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 54-56 (II, “Gli anni del consenso: il paese”): “Con la seconda metà del 1929 il regime fascista entrò in una nuova fase della sua storia, la fase che può essere definita della sua maturità. Almeno sul piano interno, esso aveva ormai fatto le sue scelte di fondo, aveva definito i suoi equilibri e il suo assetto, si era dato le sue strutture più caratteristiche. […] Tra il ’29 e la fine del ’34 il consenso non raggiunse le vette di entusiasmo e di esaltazione che avrebbe toccato nel ’36, in effetti fu però più esteso e soprattutto più totalitario o, se si preferisce, meno venato di riserve, di motivi critici, di preoccupazioni per il futuro. […] Il quinquennio ’29-34 fu per il regime fascista e, in sostanza, anche per Mussolini il momento del maggior consenso e della maggiore solidità”. Cfr. Paul CORNER, Fascismo e controllo sociale, “Italia Contemporanea”, settembre 2002, 228, pp. 381-405. Corner discute la “nuova ortodossia” della teoria del consenso di massa defeliciana che avrebbe dato respiro al progetto revisionista storico-politico in chiave, a sua volta, di consenso (che ha trovato spazio nella destrutturazione degli anni ’90 del sistema dei partiti).
350 Cfr. C. M. SANTORO, op. cit., pp. 159-160: “La vera diversità fra la politica liberale e quella fascista risiederebbe quindi essenzialmente nel cleavage esistente fra elementi congiunturali, o anche ciclici, della politica estera italiana (reattività ad eventi determinati dall’esterno, andamento del ciclo economico, evoluzione della minaccia, oscillazione tra ricerca di stabilità e iniziative destabilizzanti) ed elementi strutturali e permanenti (fattore geografico e costanti storiche). In altri termini, il modello italiano di politica estera sarebbe andato cambiando durante l’età del fascismo più in relazione a modificazioni di carattere esterno, intervenute nell’ordine internazionale, con conseguenze importanti sul ruolo dell’Italia in Europa, che non a seguito di operazioni attive generate dall’intero del sistema politico italiano, che pure esibiva un’immagine di sé senz’altro più assertiva, se non rivoluzionaria, rispetto al recente passato”.
351 Ibid. (Cap. 6, “La politica estera del fascismo”, pp. 157-176). Cfr. R. DE FELICE, op. cit., pp. 323-325 (Cap. IV, “Alla ricerca di una politica estera fascista”).
352 R. DE FELICE, op. cit., pp. 331-333, 337.
353 Cfr. Nota…
354 Cfr. C. M. SANTORO, op. cit., p. 171.
355 Ivi, p. 101: “Fase prima: 1848-1870, ovvero dell’unificazione: a) Risorgimento uno (1848-1859); b) Risorgimento due (1859-1870). Fase seconda: 1870-1896, ovvero dell’identità nazionale: a) Destra (1861-1876); b) Sinistra/Trasformismo (1876-1896). Fase terza: 1896-1922, ovvero dell’imperialismo: a) Da Crispi a Giolitti (1896-1914); b) Guerra/Pace (1914-1922). Fase quarta: 1922-1945, ovvero della grande potenza: a) Fascismo uno (1922-1934); b) Fascismo due (1934-1945). Fase quinta: 1945-1988, ovvero della media potenza: a) Deidentificazione (1945-1980); b) Regionalismo (1980-1990)”.
356 Cfr. R. DE FELICE, op. cit., pp. 336-338: “Una politica che si mosse in buona parte ancora nelle linee tradizionali della politica estera prefascista; e che quando (col ‘26-27) imboccò la via del revisionismo – da un lato, al solito, per uso interno (presentarsi come la guida dei paesi revisionisti) ma da un altro lato, per dirla con Guariglia, per cercare di ricreare quella possibilità di oscillazioni tradizionalmente per noi vantaggiosa – lo fece, a ben vedere, con cautela, senza tendere troppo la corda. Se infatti si può discutere se questa politica aveva un carattere solo transitorio, imposto dalla situazione internazionale e da quella interna dell’Italia, come noi crediamo, e se era funzionale al sistema politico fascista o rispondeva solo alla personale strategia politica mussoliniana, è però – sempre secondo noi – fuori dubbio che non solo in questi anni ma sempre Mussolini escluse l’eventualità di un conflitto in Europa per conseguire successi locali in nome del revisionismo”; cfr. Raffaele GUARIGLIA, Ricordi. 1922-1946, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1949.
357 Ivi, p. 325: “Mussolini sino al ’29 – sino a quando cioè l’economia italiana prese a risollevarsi dalla crisi connessa alla politica di quota novanta e, soprattutto, il regime non si fu in buona parte reso autonomo dalle grandi forze economiche e non ebbe concretamente affermato la preminenza della politica sull’economia – non avrebbe potuto sostanzialmente fare una politica estera molto diversa da quella che fece e, tanto meno, avrebbe potuto imprimere ad essa un carattere più aggressivo e schiettamente imperialistico. Un carattere che, del resto, essa non assunse del tutto neppure negli anni immediatamente successivi al ‘29, quando – sopravvenuta la grande crisi – il punto di saldatura tra la politica estera e la politica economica italiana divenne sempre più l’azione volta a creare nella regione danubiano-balcanica dei mercati privilegiati per l’economia italiana”.
358 C. M. SANTORO, op. cit., p. 157, 159, 175: “Le due metà del bacino mediterraneo, quella orientale prima e quella occidentale poi, diventeranno, per esclusione, l’obiettivo strategico prioritario di un regime politico che, ancor prima di essere sconfitto sul campo, aveva già percepito la decadenza del suo ruolo nell’Europa centrale e orientale. Questa residualità geopolitica, che più di una volta è stata rilevata nella politica mediterranea dell’Italia, anche nel secondo dopoguerra, è sempre stata il prodotto dell’estromissione e della marginalizzazione del paese dalla politica europea, e quindi dalla grande politica”. Uno schema che può riferirsi, allora, anche alla situazione attuale di crisi del processo d’integrazione europea e ai tentativi di fuga dell’Italia, in un rinnovato impegno pacificatore nel Mediterraneo.
359 Gustavo CORNI, Il modello tedesco visto dall’Italia in Agostino GIOVAGNOLI-Giorgio DEL ZANNA (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 34-54.
360 Di parziale formazione nella cultura (idealistica) tedesca e negazione come autoaffermazione culturale e nazionale. Ivi, p. 34 (40) e ss.
361 Con un antecedente significativo nei rapporti commerciali tra “Italia” e mondo tedesco. Cfr. Rupert PICHLER, Politica commerciale, economia e rapporti di vicinato tra l’Italia e la monarchia asburgica, 1815-1914, “Società e Storia”, 1997, 75, pp. 43-85 (p. 47): “L’istituzione dell’unione doganale tedesca (Zollverein) [nel 1834, caldeggiata in particolare da List,] rese nuovamente attuale il problema delle relazioni economiche con gli Stati italiani confinanti. Lo Zollverein dimostrò la sensatezza e la necessità di una regolamentazione contrattuale dei rapporti di commercio estero con gli altri paesi, dopo che si era finalmente compreso che nessuno Stato poteva strutturarsi come isola economicamente autarchica. Lo Zollverein esercitò una certa forza d’attrazione sulla pubblicistica lombarda; ad esso vennero strettamente collegati i problemi della teoria dell’economia nazionale. In questo modo, la pubblicistica coinvolta nel cosiddetto dibattito sull’industrialismo (Industrialismus) attribuì grande importanza alla questione del commercio estero. […] Ci volle molto tempo affinché l’idea dell’unificazione dell’Italia in una lega doganale (Zollunion) guadagnasse popolarità. La parte colta dell’opinione pubblica italiana fu messa a parte di progetti del genere nel 1844, da Delle speranze d’Italia di Cesare Balbo, che discuteva diverse varianti di lega doganale appropriate all’Italia. Di queste la soluzione più desiderata, ovvero un’unione doganale comprendente l’Impero austriaco, gli Stati italiani e lo Zollverein [che sarà il principale strumento dell’unificazione tedesca], era purtroppo, per motivi politici, irrealistica”. Cfr. Cesare BALBO, Delle speranze d’Italia, UTET, Torino 1944.
362 Cfr. Brunello MANTELLI, Dagli scambi bilanciati all’asse Berlino-Roma, “Studi Storici”, XXXVII, 1996, 4, pp. 1201-1225.
363 Enzo COLLOTTI, Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1989, p. 56.
364 Cfr. Mariangela PARADISI, Il commercio estero e la struttura industriale in Pierluigi CIOCCA-Gianni TONIOLO (a cura di), L’economia italiana nel periodo fascista, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 271-328 (p. 273, 296).
365 Cfr. B. MANTELLI, op. cit., pp. 1203-1204. Import-export italiano: 1929: USA 16,7 % import, 11,5 % export (+ Sud America 26,7 %, 20,7 %); Germania 12,5 % imp., 11,9 % exp.; 1935: USA 11,3 % imp., 7,4 % exp.; Germania 18,3 % imp., 16,2 % exp. (1936: 26,8 %, 19,6 %). Cfr. “Bollettino Mensile di Statistica dell’Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia”, 6, 1, Gennaio 1931.
366 Albert O. HIRSCHMAN, Potenza nazionale e commercio estero. Gli anni trenta, l’Italia e la ricostruzione, Il Mulino, Bologna 1987, p. 226.
367 Cfr. Giuseppe TATTARA, Power and Trade. Italy and Germany in the Thirties, “VSWG”, 78, 1991, 4, pp. 457-500 (459, 457), 1/4/2006, http://venus.unive.it/tattara/pubblicazioni.html: “Il commercio estero ha due principali effetti sulla potenza di un paese. Un effetto per quanto riguarda la disponibilità di beni (supply), cioè il commercio mette a disposizione una quantità più soddisfacente di beni che si desiderano e questo accresce la forza di un paese, ed un effetto per quanto riguarda l’influenza (influence), cioè il commercio mette a disposizione uno strumento di coercizione nelle relazioni tra stati sovrani”. Cfr. B. MANTELLI, ibid., pp. 1201-1205.
368 F. BONELLI, op. cit., pp. 1226-7: “Dagli anni del primo conflitto, il progressivo accrescersi della dipendenza politica dall’estero del capitalismo italiano: ove per dipendenza politica si intende la necessità, per quest’ultimo, di subire le condizioni dettate dall’alleato esterno e di farne accettare le implicazioni sul piano politico e sociale, e per estero si intende quella che, in questo arco di tempo, diventa la sede di un sistema monocentrico dal quale prende movimento un meccanismo unitario e mondiale di sviluppo capitalistico (gli Stati Uniti). […] Per tutto il corso di un cinquantennio il grado di dipendenza dall’estero dell’Italia, lungi dall’attenuarsi, si accresce progressivamente, e le possibilità di ridurre i condizionamenti che ne derivano restano sostanzialmente affidate a chances di tipo ottocentesco”.
369 Ivi, pp. 1220-1228 (1225-1226): Nel primo dopoguerra “cessati i contributi finanziari da parte degli alleati, ci si affidò, per il saldo della bilancia dei pagamenti, agli investimenti esteri privati a breve scadenza e speculativi”, sperando “in una ripresa dei meccanismi di riequilibrio”. Ma di nuovo “ci si trovò, alla metà degli anni ’20, nell’impossibilità di fronteggiare una grave squilibrio commerciale, e proprio nel bel mezzo di un vasto impegno di investimenti. Si tornò allora a puntare sull’apporto di capitali esteri e, in particolare, con la politica di stabilizzazione, si pensò di seguire ancora la strada dell’alleanza con un paese forte (gli Stati Uniti) e della garanzia politica agli investimenti privati a lungo termine cui l’appoggio esterno fa da battistrada”. Cfr. Enzo COLLOTTI, Fascismo e politica di potenza: politica estera 1922-1939, La Nuova Italia, Milano 2000, pp. 61-68 (Cap. II, “Propaganda e politica: revisionismo e revisione. Italia e Stati Uniti”): “Le trattative che portarono nel 1925 al rimborso parziale del debito di guerra furono di fatto, come è stato riconosciuto ampiamente da Gian Giacomo Migone, la condizione preliminare perché l’Italia potesse accedere al mercato finanziario statunitense, dal quale attendeva i prestiti necessari per i progetti di sviluppo del paese. La missione del conte Giuseppe Volpi negli Stati Uniti tra ottobre e novembre 1925 e l’intervento della Banca Morgan, che nella stessa misura in cui prestava la sua consulenza al governo fascista fungeva da apripista verso gli ambienti finanziari americani, furono tra i preliminari dell’accordo che, al di là di ogni dissonanza di linea politica tra i due paesi, doveva rientrare nel quadro della politica di stabilizzazione della lira. Il prestito di 100 milioni di dollari all’Italia contrattato alla fine del 1925 sottolineò la conclusione di questa fase di avvicinamento tra Italia e Stati Uniti, caratterizzata da una parte dalle esigenze di legittimazione e di stabilizzazione dell’Italia, dall’altra dall’interesse degli Stati Uniti a contribuire alla più generale stabilizzazione dell’Europa dopo la guerra”. Con la crisi del ‘29 questa propensione stabilizzatrice sarebbe cessata. Cfr. Gian Giacomo MIGONE, Gli Stati Uniti e il fascismo: alle origini dell’egemonia americana in Italia, Feltrinelli, Milano 1980. Prefigurando una sorta di testa di ponte americana in Europa.
370 Ibid.: “Il rapido esaurirsi delle riserve e, successivamente, il radicale ripiegamento autarchico, con una gestione valutaria amministrativa, tutta finalizzata ad assicurare il funzionamento delle industrie essenziali, che in questa fase sono soprattutto quelle che servono al riarmo; al punto che c’è un momento, sul finire degli anni ’30, durante il quale può dirsi realizzato l’obiettivo di finanziare le importazioni con le sole esportazioni”.
371 Giampiero CAROCCI, op. cit., p. 58, 63.
372 Cfr. Heinrich August WINKLER, La Repubblica di Weimar, Donzelli, Roma 1998, pp. 414-428, 438-439, 463-468, 541-545: “La dipendenza da Hindenburg fin dall’inizio non lasciava alcuna possibilità a Brüning di diventare l’architetto di una alternativa conservatrice. Quello a cui la camarilla mirava non può essere reso abbastanza bene con il termine conservazione. I piani dei consiglieri del presidente del Reich puntavano a uno Stato autoritario, in cui la volontà delle masse avrebbe contato molto poco. Il pilastro decisivo di un simile regime non sarebbe stato il Parlamento, ma la Reichswehr”. Se con le sue dimissioni (30 maggio 1932) termina la fase presidenziale moderata, il cancellierato Brüning di fatto costituisce in prospettiva la fase iniziale di un più ampio progetto neoconservatore-autoritario: attraverso Hindenburg, sulla scia del governo militare guidato, tra il 1916 e il 1918, dal Comando Supremo dell’Esercito (OHB, Obereste Heeresleitung). Attraverso l’estensione progressiva delle prerogative presidenziali mediante l’abuso sistematico dell’articolo 48 della Costituzione di Weimar: dei governi presidenziali (Präsidialregierung) – governi non-parlamentari – e della decretazione di emergenza (Notverordnung).
373 Ibid.: “Fin tanto che i socialdemocratici parteciparono al governo, il revisionismo tedesco rimase soffocato dalla fedeltà ai principi della politica di intesa. Solo dopo la rottura della Grande Coalizione riuscirono ad affermarsi quelle forze che volevano superare il sistema di Versailles e contrapponevano all’idea di una Paneuropa una concezione che appariva molto più concreta: l’obiettivo di una Mitteleuropa economicamente e politicamente guidata dalla Germania. Il cambiamento di rotta nella politica tedesca fu provocato anche dallo spostamento a destra del centro borghese […]. I liberali non erano riusciti a contrastare a sufficienza la paura del ceto medio produttivo di rimanere schiacciato fra il grande capitale e il movimento operaio marxista. […] L’unione doganale si iscriveva in un quadro molto più ampio: il rafforzamento dell’influenza tedesca sulla Europa centrale – gli Stati medio-piccoli dalla Finlandia fino ai Balcani. L’unificazione della politica commerciale fra Berlino e Vienna avrebbe dovuto sostanzialmente agevolare alla Germania il consolidamento della sua posizione nell’Europa sud-orientale. In questa ottica, l’unione doganale costituiva una tappa importante nella direzione di una Mitteleuropa di impronta tedesca, anzi di una egemonia continentale del Reich”.
374 Cfr. A. O. HIRSCHMAN, op. cit., p. 109; cfr. B. MANTELLI, op. cit., pp. 1206: “La Germania, paese debitore e a moneta debole, si trovò attratta dai paesi del centro Europa e dell’Europa sud-orientale, che erano in una situazione simile”.
375 Nicola LA MARCA, Italia e Balcani fra le due guerre. Saggio di una ricerca sui tentativi italiani di espansione economica nel Sud Est europeo fra le due guerre, Bulzoni, Roma 1979, pp. 33.
376 Cfr. Albrecht RITSCHL-Nikolaus WOLF, The russian disease: trade blocs and currency blocs in the inter-war period and their effects on international trade, 1/4/06, http://www.uni-tuebingen.de/uni/wwl/ritschlgravity.pdf, pp. 12-13. Il principale elemento distorsivo, dagli anni Venti in poi, sarebbe rappresentato dalla Russia sovietica; rispetto a cui l’area del marco negli anni Trenta opererebbe addirittura una riduzione della diversione.
377 Cfr. Alan S. MILWARD, The New Order and the French Economy, Clarendon, Oxford 1970; Ibid., The Reichsmark Bloc and the International Economy in Gehrard HIRSCHFELD-Lothar KETTENACKER (a cura di), Der Führerstaat. Myhtos und Realität. Studien zur Struktur und Politik des Dritten Reiches, Klett-Cotta, Stuttgart 1981; Ibid., L'economia di guerra della Germania, Franco Angeli, Milano 1978. Fallita la politica di sfruttamento per la necessità di ingenti investimenti – così come la più generale politica di import-substitution e di autarchia – a sostenere l’economia di guerra tedesca sarebbero stati i territori occupati occidentali .
378 Cfr. B. MANTELLI, op. cit., pp. 1207.
379 Ivi, pp. 1220-1221. Il passaggio da una “politica di riarmo generalizzato” ad una di riarmo accelerato-concentrato – quella del Piano Quadriennale (che prevede principalmente la sostituzione delle materie prime strategiche) – è dettato dall’esigenza di non penalizzare oltremisura le esportazioni e il livello dei consumi; ma il Piano include un’opzione strategica in direzione della Blitzkrieg: campagne brevi ed alta intensità che permettano di attingere rapidamente a risorse per il sistema autarchico.
380 Cfr. Gustavo CORNI, Hermann Göring, Giunti, Firenze 1998, pp. 22-35 (“Il dittatore dell’economia”); Ibid., Storia della Germania, Il Saggiatore, Milano 1995; cfr. Ibid., Il sogno del grande spazio. Le politiche d’occupazione nell’Europa nazista, Laterza, Roma-Bari, 2005. Data la scarsa competenza e la confusione di linee programmatiche, inizialmente la gerarchia di partito si tiene – e viene tenuta (dall’establishment conservatore) – lontana dai ministeri economici. Fino al novembre del 1937 si succedono infatti al Ministero dell’Economia, il tedesco-nazionale Alfred Hugenberg (ex Presidente della Krupp), il conservatore Kurt Schmitt (Presidente della Allianz AG, poi della AEG) e in fine l’ex democratico Hjalmar Schacht (Presidente della Reichsbank, fino al gennaio del 1939) originario punto di collegamento tra nazionalsocialisti e mondo finanziario-industriale. Con l’ordinanza del 18 ottobre 1936 che conferisce a Göring l’incarico di Plenipotenziario per il Piano Quadriennale e le dimissioni di Schacht (sostituito da Funk) l’anno successivo, se non di estromissione totale, si può parlare di una forte e decisiva limitazione della componente conservatrice e della sua (relativa) azione moderatrice delle tendenze autarchiche. Ma pur nella logica bellico-autarchica – che ancor più informa il successivo Krauchplan (13 agosto 1938) elaborato, nell’accelerazione della corsa verso il conflitto, dal Presidente del trust chimico IG Farbenindustrie (1925) e Plenipotenziario per la produzione chimica del Piano Quadriennale, Carl Krauch – non si può negare una continuità di rapporto col mondo economico: verso una compenetrazione statal-industriale, come da sviluppo del modello autarchico. Un nuovo ceto manageriale è lo strumento attraverso cui il Piano attua il governo dell’economia, una gestione accentrata dei flussi di materie prime e dei finanziamenti: la “nazificazione dell’economia tedesca”, rimodellata secondo il führerprinzip nell’ “economia del comando”.
381 C. M. SANTORO, op. cit., p. 158.
382 Adrian LYTTELTON, La dittatura fascista. Il partito, lo Stato e la svolta totalitaria in Giovanni SABBATUCCI-Vittorio VIDOTTO (a cura di), Storia d’Italia. vol. IV. Guerre e fascismo: 1914-1943, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 235: “L’inquietudine per l’atteggiamento della monarchia determinò un effetto perverso: fece aumentare la pressione per una politica di avventura e di conquista, in quanto solo un’altra grande guerra avrebbe finalmente permesso a Mussolini di liberarsi del peso di Casa Savoia. Con la crescita della sfiducia negli ambienti ecclesiastici e monarchici e nel mondo degli affari, l’accordo tra i vari gruppi che costituivano la classe dirigente era minacciato”.
383 Cfr. A. LYTTELTON, De Felice e il problema del totalitarismo fascista in Pasquale CHESSA-Francesco VILLARI (a cura di), Interpretazioni su Renzo De Felice, Baldini & Castoldi, Milano 2002, pp. 67-76 (p. 71). Secondo Lyttelton, i fascismi sembrano non poter sfuggire ad un’incapacità intrinseca di innovarsi; superata una prima fase di stabilizzazione, ad un’oscillazione autodistruttiva tra l’ “immobilismo autoritario” e il “dinamismo sfrenato”.
384 Ivi, p. 68, 70: “Se mi sembra ancora lecito parlare di totalitarismo nel caso italiano, nonostante le evidenti debolezze del regime e l’esistenza di una situazione di compromesso istituzionale che Mussolini non riuscì a cambiare in modo decisivo neanche negli anni in cui lo Stato totalitario raggiunse la sua massima espansione (1936-1940), è perché, più impariamo sugli altri totalitarismi, più l’immagine di un potere veramente totale sulla società si appanna, si sfaccetta, e più percepiamo i loro limiti. Il ruolo del clientelismo e della corruzione e la resistenza delle tradizioni culturali e sociali, o la loro capacità di assimilare la nuova politica, non sono fenomeni peculiari di un totalitarismo debole come quello italiano”. Semmai più persistenti. Con la rinuncia al terrore di massa (“per il territorio metropolitano”) – la mancata compenetrazione tra Stato, partito e società civile – si produce piuttosto “un conformismo di massa, che riesce a trasformarsi a sua volta anche in un consenso apparentemente attivo ed entusiasta, ma fragile, nel senso che, quando la costrizione è allentata, può dissolversi molto rapidamente”.
385 Cfr. R. DE FELICE, op. cit., p. 324: “Il problema dell’incidenza sulla politica estera fascista negli anni venti dei rapporti tra governo fascista e grandi forze economiche è stato trattato soprattutto dal Carocci, che ne ha messo in luce gli elementi essenziali. Dalla sua analisi risulta chiaramente che dalla maggioranza degli ambienti economici italiani del tempo la politica estera era sentita come un problema più lontano e per essi meno vitale di quelli connessi alla politica interna, economica e sindacale. Ciò che interessava veramente loro era di poter aumentare le esportazioni di merci, nonostante le crescenti difficoltà degli scambi internazionali, e di potersi difendere dai cartelli internazionali. Al di là di questi due obiettivi, la politica estera auspicata dalle forze dominanti della economia era una politica di collaborazione con le grandi potenze, con le quali maggiore era l’interscambio commerciale; ma, anche perché le esportazioni verso i loro mercati andavano restringendosi, costoro miravano ad estendersi verso i mercati dell’arca danubiana, balcanica e mediterranea, e gradivano, in questi settori, una politica di prestigio e di forza, che facilitasse indirettamente la penetrazione economica, purché non oltrepassasse il limite della collaborazione con le altre potenze”. Cfr. Giampiero CAROCCI, Appunti sull’imperialismo fascista negli anni ’20, “Studi Storici”, VIII, gennaio-marzo 1967, 1, p. 113 e ss.
386 A. LYTTELTON, La dittatura fascista… pp. 220-238 (222): “Le forze conservatrici dell’esercito della grande industria, e della grande proprietà agraria avevano avuto facilmente ragione contro i tentativi di innovazione portati avanti da un Balbo, da un Bottai o da un Serpieri, ma debolmente sostenuti dallo stesso Mussolini”.
387 Ivi, p. 220: “Tra il 1929 e il 1935 l’equilibrio di forze tra Mussolini, il movimento fascista, e i poteri paralleli della monarchia, dell’esercito, del mondo economico e della Chiesa si era modificato nel senso di un rafforzamento della dittatura personale di Mussolini. Sia la Chiesa, coll’esito del conflitto del 1931, sia le banche e l’industria, per i contraccolpi della grande crisi, avevano perduto una parte della loro autonomia. Ma lo stesso poteva dirsi del Partito fascista. La fedeltà dell’esercito alla monarchia costituì un ostacolo più difficile da superare”.
388 Consenso totalitario che ha una natura necessariamente coercitiva. La coercizione si concretizza non solo nelle forme della repressione diretta ma nella categoria più generale della discrezionalità del potere. Evidentemente la discrezionalità nell’assegnazione delle risorse, nel contesto della grande crisi economica, ha un’alta capacità di generare consenso conformistico. Cfr. P. CORNER, op. cit.; R. DE FELICE, op. cit., pp. 55-56 : “Affermare che il quinquennio ‘29-34 fu per Mussolini e per il regime il periodo del maggior consenso non è però sufficiente; da un lato, perché – in termini generali – una tale affermazione non può prescindere da un tentativo di cogliere i caratteri e i limiti di questo consenso e le sue motivazioni rispetto sia alle varie componenti della società italiana del tempo, sia alla politica del regime e alla figura di Mussolini; da un altro lato, perché – in termini più specifici – il quinquennio ’29-34 corrispose al periodo della grande crisi e fu proprio in questo lasso di tempo che il regime dovette fronteggiare le conseguenze della maggiore depressione economica della sua storia, con tutte le difficoltà tipiche dei periodi di crisi, disoccupazione, riduzioni dei salari, agitazioni, ecc., che – a prima vista – male si inseriscono in un quadro generale caratterizzato dal consenso”. Cfr. Nota…
389 Cfr. A. LYTTELTON, La dittatura fascista…, p. 224.
390 Ivi, p. 226: “Mussolini e Starace cercavano di venire incontro al radicalismo e all’estremismo giovanile senza cambiare le strutture economiche o politiche. La campagna razziale e la campagna antiborghese, proclamate ufficialmente tra l’estate e l’autunno del 1938, miravano ambedue a questo scopo. La retorica antiborghese del fascismo va letta come una confessione di fallimento. Il fascismo non era riuscito a superare la resistenza passiva della borghesia verso gli imperativi di una modernizzazione di tipo militarista. Lo scetticismo verso la politica estera del regime aumentava visibilmente”.
391 Cfr. G. CAROCCI, Storia del fascismo…, p. 63: “L’italiana e la tedesca erano società industrializzate e di massa nelle quali, per i loro particolari (e diversi) limiti storici, non erano state in grado di integrarsi pienamente i ceti medi e popolari. Quando la società si trovò di fronte a una crisi di particolare gravità – il dopoguerra in Italia, la grande depressione economica in Germania – i ceti medi proposero, e i gruppi dominanti accettarono, una soluzione diversa da quella conservatrice classica: appunto la soluzione fascista. [Determinata da] l’incontro tra gli aspetti strutturali e i problemi di politica estera”. Cfr. R. DE FELICE, op. cit., p.52 (I, “Mussolini di fronte alla realtà del regime fascista e alle sue prospettive alla svolta decennale”).
392 A. LYTTELTON, La dittatura fascista…, pp. 231-233.
393 Turbando quelle aspettative di controllo-continuità sociale che il fascismo ha fin qui garantito. Cfr. P. CORNER, op. cit.
394 Cfr. Nota…
395 E. COLLOTTI, op. cit., p. 254 (“L’avventura coloniale e l’impero”, Cap. VII, pp. 247-278): “Bisognava approfittare della tregua nella politica europea e della stabilizzazione dei rapporti con la Francia, cui Mussolini attribuiva un’importanza una influenza eccessiva anche sui rapporti italo-jugoslavi e soprattutto la funzione di rallentatore al dinamismo del Terzo Reich”. Cfr. Promemoria Mussolini (per Badoglio), 30 dicembre 1934 in Giorgio ROCHAT, Militari e politici nella preparazione della campagna d’Etiopia: studio e documenti, 1932-1936, Franco Angeli, Milano 1971, pp. 376-379. Cfr. R. DE FELICE, op. cit., Cap. VI, “La guerra d'Etiopia”.
396 Cfr. A. LYTTELTON, La dittatura fascista…, p. 234: “Il risultato più importante della perdita di consenso fra il 1937 e il 1939 era il rifiuto del fascismo come sistema politico. Non soltanto tra i ceti medi, ma nella stessa élite fascista, si diffondeva la convinzione che il regime non sarebbe sopravvissuto alla morte di Mussolini. Si sarebbe passati quanto meno a un sistema autoritario, con la restaurazione di poteri effettivi alla monarchia. Si può dire che lo scarto sempre presente tra le ambizioni del regime e la dittatura personale e provvisoria si allargava in modo decisivo. Nell’immediato, le difficoltà maggiori per Mussolini venivano invece dall’indebolimento delle alleanze con i poteri paralleli, tutti minacciati ma non certo resi innocui dalla svolta totalitaria, anzi più capaci di calamitare un proprio consenso”.
397 Cfr. Giuseppe BOTTAI, Italianità e universalità di Mussolini, “La Nuova Antologia”, LXXIV, 1 novembre 1939, 1623, 6, pp. 3-8. Cfr. Nota 330; Valerio MARCHI, L’ “Italia” e la missione civilizzatrice di Roma, “Studi Storici”, XXXVI, aprile-giugno 1995, 2, pp. 485-532; E. COLLOTTI, Fascismo e politica di potenza…, p. 248. Cfr. Paola BRESSO, La Chiesa e la politica estera del fascismo, Giappichelli, Torino 1974; Giovanni MICCOLI, Fra mito della cristianità e secolarizzazione: studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Marietti, Casale Monferrato, 1985. Con la Guerra d’Etiopia la politica conciliare, nei reciproci sforzi di strumentalizzazione – “scontri di concorrenza fra due egemonie che volevano essere ugualmente assorbenti dell’intero corpo sociale” (Miccoli) – regime e Chiesa, raggiungeranno il punto massimo di avvicinamento; declinerà a partire dall’approssimarsi dell’alleanza con la Germania e dalle leggi razziali che prospetteranno un’egemonia totalitaria sulla società: minando il progetto – contrario – di Stato confessionale (Marchi, De Felice). Cfr. R. DE FELICE, Mussolini il fascista. 2: L’organizzazione dello stato fascista 1925-1929, II, Einaudi, Torino1968, p. 474.
398 Cfr. Giovanni BELARDELLI, Il fascismo e l’organizzazione della cultura in G. SABBATUCCI-V. VIDOTTO, op. cit., pp. 441-500 (457); Giuseppe Carlo MARINO, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Editori Riuniti, Roma 1983. Cfr. Alastair HAMILTON, L’illusione fascista. Gli intellettuali e il fascismo. 1919-1945, Mursia, Milano 1972; Ruth BEN-GHIAT, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2004; Mirella SERRI, I redenti, Corbaccio, Milano 2005. Cfr. Hildegard BRENNER, La politica culturale del nazismo, Laterza, Bari 1965.
399 Cfr. A. LYTTELTON, La dittatura fascista…, pp. 220-238 (220, 222-223).
400 Cfr. S. SANTORO, op. cit., p. 61: “L’IPEO aveva intrapreso un ruolo attivo nel fiancheggiare l’azione di Palazzo Chigi, impegnato in quegli anni a contrastare la spinta delle potenze occidentali, in primo luogo Francia e Germania, verso l’Est europeo. Era soprattutto in direzione del settore danubiano-balcanico che i potentati finanziari e commerciali italiani stavano conducendo una lotta serrata contro la finanza tedesca. La consapevolezza del legame esistente fra penetrazione culturale e propaganda politico-economica aveva fatto guardare all’IPEO con un certo interesse diversi circoli finanziari gravitanti attorno a Volpi di Misurata e al mondo dell’industria milanese, per mezzo di intermediari quali Giannini e il presidente dell’Istituto, Ruffini”. Cfr. Relazione di A. Giannini a S. E. il ministro, 9 ottobre 1920, in ASMAE, USE, MCP, b. 296. Nel comitato promotore presieduto dal giurista liberale Francesco Ruffini compaiono oltre a Giovanni Gentile (Vicepresidente), il grecista Nicola Festa (Direttore), Umberto Zanotti-Bianco, Ettore Lo Gatto (Segretario) e Giuseppe Prezzolini; Amedeo Giannini di diritto come delegato del Ministero degli Esteri. Cfr. Giuseppe PREZZOLINI, Diario, vol. I (1900-1941), Rusconi, Milano 1978, p. 227, 333, 335. Cfr. Francesco CASELLA, Le letterature dei paesi del sud-est europeo in Italia in Ennio DI NOLFO-Romain H. RAINERO-Brunello VIGEZZI (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa. 1938-40, I vol., Marzorati, Milano 1985, pp. 205-214.
401 Cfr. Marco GIRO, L’Istituto per l’Oriente dalla fondazione alla seconda guerra mondiale, “Storia Contemporanea”, XVII, 6, dicembre 1986, pp. 1139-1176.
402 Cfr. Giovanni DESSÌ, Il 1923 di Gentile: dal liberalismo al fascismo in Franco M. DI SCIULLO (a cura di), Anni di svolta. Crisi e trasformazioni nel pensiero politico contemporaneo, Rubbettino, Soneria Mannelli, 2006; Gabriele TURI, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la seconda guerra mondiale, “Italia contemporanea”, 138, 1980, pp. 3-32; Ibid., Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Il Mulino, Bologna 1980; Gherardo GNOLI, Giovanni Gentile fondatore e presidente dell'Ismeo in Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l'organizzazione della cultura, Marsilio, Venezia 1995, pp. 165-173. Un progetto elitario tardo liberale – nazionale più che fascista – coerente con l’idea di un fascismo erede attualistico della tradizione nazional-liberale; di egemonia alto-culturale, mal sopportata dal partito che s’incaricherà di ridimensionare la portata della riforma scolastica e il ruolo di Gentile all’interno del sistema degli istituti. Fino alle dimissioni del 1937 dalla presidenza dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista (Istituto Nazionale Fascista di Cultura), ormai entrato nell’orbita staraciana e quindi in una logica propagandistica e totalitaria. Cfr. G. BELARDELLI, op. cit., p. 448, 468-70. Gli istituti per Gentile non sarebbero dovuti essere strumento puramente propagandistico-mobilititativo-clientelare e di “democratizzazione”-diffusione culturale, al contrario struttura di uno schema a cultura “concentrata”; G. C. MARINO, op. cit., pp. 195-196 (pp. 195-201, 3, III, “L’eclisse guelfa della cultura fascista. Declino e fine di Gentile”): “Dalla seconda metà degli anni trenta alla guerra mondiale la cultura autarchica – mentre il mito dell’italianità andava assorbendo e surrogando la ricerca di una dottrina fascista – fu colpita da galoppanti fenomeni di dissociazione che avrebbero finito per sancire la definitiva scomposizione delle sue forze in una miriade di correnti e gruppi diversi e spesso tra loro ostili. Alla fine si sarebbe verificata, con il fallimento della sperimentazione intrapresa all’insegna del fascismo, la liquidazione del tentativo disperato di superare la crisi della cultura borghese (e pertanto anche gli effetti inquietanti dell’inevitabile massificazione del sistema capitalistico) mediante un mistificante uso aclassista delle stesse categorie borghesi. La prima manifestazione del processo dissociativo in corso, che sarebbe stato sempre più evidente dopo la guerra d’Etiopia, si vide attraverso il distanziamento progressivo (fino alla polemica aperta e alla definitiva rottura) dell’area idealistica rappresentata da Gentile, nutrita di umori laici e liberali, dall’area fascisto-cattolica, luogo dei punti della trasformazione sanfedistica di tutte le posizioni tradizionaliste e integraliste fondate su molteplici e spesso discordi interpretazioni del ruolo cattolico del fascismo (si pensi soprattutto a Giovanni Papini e, per certi versi, a Fanelli) e del ruolo fascista del cattolicesimo (si pensi principalmente a Petrone e a Ricci). Entrambe le aree, a loro volta, si caratterizzavano in opposizione a gruppi che in vario modo, da Evola a Preziosi, da Spampanato a Interlandi, recepivano e filtravano sollecitazioni e suggestioni provenienti dal nazismo. Il progresso di emarginazione e di autospegnimento dello squadrismo della cultura stava seguendo le spirali della lenta involuzione del Selvaggio di Maccari fino alla definitiva eclisse provinciale; mentre, dall’altra parte, la cultura nazionalistica del primo Novecento stava pagando fino in fondo gli effetti del connubio con il fascismo, assistendo alla volatilizzazione delle sue multanime risorse: da quelle incarnate dal dannunzianesimo, esauritesi con il Comandante nel lugubre ritiro di Gardone, a quelle corradiniane, finite con la morte dei Rocco, dei Sighele, dei Foscari e dei Forges Davanzati, anche se retoricamente riprodotte ed invocate dai Federzoni e dai Coppola, alle altre atipiche e antigiolittiane della tradizione vociana maceratesi nell’esilio e nel vagabondaggio intellettuale di un Prezzolini. Frattanto la cosiddetta cultura fascista – la cultura ufficiale in simbiosi con la propaganda e con le agenzie del consenso – tendeva a risolversi di fatto in una dimensione allargata i cui margini collimavano con quelli della tradizionale egemonia cattolica sulla società italiana. Nella complessiva fase di disgregazione dell’ipotesi culturale fascista si svolgevano, infatti, le linee di tendenza più funzionali alla ricerca di un rapporto organico con quel tessuto sociale dell’arretratezza italiana nel quale il potere politico della dittatura potesse meglio affermarsi e radicarsi. Era certo più congeniale ai fini della dittatura di massa l’adeguamento all’Italia reale della medio-piccola borghesia piuttosto che all’Italia ideale sognata dai filosofi dello Stato etico, dai mistici del nuovo ordine e dagli oscuri e avventurosi profeti di un futuro fascista sempre più incredibile e fosco. Ben presto tale positivo orientamento spiazzò Gentile e i gentiliani”. Cfr. Albertina VITTORIA, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, “Studi Storici”, XXXVI, luglio-settembre 1995, 3, pp. 729-760.
403 Fondato e presieduto da Gentile e dal prestigioso orientalista marchigiano, e nel cui Consiglio siederanno significativamente diversi esponenti del mondo economico; tra gli altri, Giuseppe Volpi (co-vicepresidente assieme a Tucci), Antonio Stefano Benni, Ettore Conti, Alberto Pirelli (oltre a Fulvio Suvich e ad Alfredo Rocco). Cfr. Valdo FERRETTI, Politica e cultura: origini e attività dell’IsMeo durante il regime fascista, “Storia Contemporanea”, XVII, ottobre 1986, 5, pp. 779-819; Giuseppe PARLATO, L’ISMEO nel suo tempo, “Giornata dell’Asia 2006” (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 16 febbraio 2006).
404 Raniero GNOLI, Ricordo di Giuseppe Tucci, Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma 1985, pp.7-42; Stefano MALATESTA-Bernardo VALLI, I mondi lontani di Giuseppe Tucci, “La Repubblica”, 4 settembre 2005. Cfr. R. DE FELICE, op. cit. (Cap. VI, La guerra d’Etiopia); Ibid., Il fascismo e l’Oriente. Arabi, Ebrei e Indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988; “Storia Contemporanea”, 6, dicembre 1986.
405 Cfr. Karl HAUSHOFER, Analogie di sviluppo politico e culturale in Italia, Germania e Giappone (Conferenza all’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente del 12 marzo 1937), ISMEO, Roma 1937. Cfr. Philippe MOREAU DEFARGES, Introduzione alla geopolitica, Il Mulino, Bologna 1996.
406 Essenziale nell’evoluzione del pensiero gentiliano sarebbe l’influenza, attraverso Tucci – in un rapporto di reciproca contaminazione – dello spiritualismo orientale (nei suoi connotati antimaterialisti-antiliberisti); dopo che la politica concordataria ha messo fine al progetto totalitario nella forma dello Stato etico: da alcuni immaginata come una sorta di religione civile romana secolarizzata con influssi precristiani.
407 Cfr. Giovanni GENTILE, La nuova Italia e l’Oriente medio ed estremo in Italia e l’Oriente Medio ed Estremo, La Rassegna Italiana, Roma 1935, p. 316 (pp. 311-16): “Grazie alla sua influenza culturale e al ruolo nella ricostruzione economica, l’Italia sarà in futuro in grado di agire come una grande potenza in Asia”. Cfr. G. GNOLI, Giovanni Gentile…
408 Cfr. S. SANTORO, op. cit., pp. 55-56. Nell’esperienza dell’Institut d’Études Slaves di Parigi, dell’Istituto per l’Europa Orientale di Breslavia, della School of Slavonic Studies di Londra: finalizzati essenzialmente a costituire legami stabili tra le intelligencije.
409 Guido MELIS, Amedeo Giannini in DBI, vol. LIV, Treccani, Roma 2000, pp. 485-489. Giurista con vastissima esperienza ed incarichi – specie nel settore della diplomazia economica-commeriale – nel segno di quella più volte citata tecnocrazia di Stato, con una visione (conservatrice) istituzionale del proprio ruolo: in-politico ma centrale nella gestione del potere. Sarà chiamato da Vittorio Emanuele Orlando all’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio e in questa veste delegato alla Conferenza di Parigi (1919-‘20); poi sotto Carlo Sforza a capo del costituendo Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri (‘20-‘23). Curerà, tra gli altri, la firma del primo Accordo Commerciale con l’URSS (1925) e collaborerà all’elaborazione dei Patti Lateranensi. Ministro plenipotenziario per gli accordi commerciali tra Italia e Germania (1938); poi nel Comitato Italo-tedesco.
410 S. SANTORO, op. cit., p. 56: “Al tempo in cui ricopriva la carica di capo dell’Ufficio stampa della Presidenza del consiglio alla Conferenza della pace di Parigi. Resosi conto dell’impreparazione di gran parte della stampa italiana rispetto a quella straniera sui temi della politica internazionale, Giannini iniziò a progettare l’istituzione di un’agenzia, al servizio del Ministero degli esteri, atta a coordinare e indirizzare la stampa italiana in modo da metterla al servizio della politica condotta dalla nostra diplomazia”. Cfr. Relazione di A. Giannini…
411 In particolare di due gruppi che andranno a costituire l’IPEO: Un primo nato dal rapporto di Umberto Zanotti-Bianco e di Ettore Lo Gatto con le dissidenze russe e attorno alle riviste “La Giovane Europa” (1916), “La voce dei Popoli” (1918), “Russia” (1917); Un secondo gruppo – di vociani – composto da Prezzolini, Ojetti, Borgese (e Gobetti).
412 Ivi, p. 57.
413 Dualismo che si rintraccia nella rivista dell’Istituto “L’Europa Orientale”: con un notiziario (Rassegna politica) curato direttamente dall’Ufficio stampa del Ministero e che nella pretesa di oggettività fornisce, quindi, una lettura orientata dei fatti d’attualità.
414 Ivi, pp. 66-68, 78: “Gli ambienti diplomatici italiani si preoccuparono infatti di contrastare la montante concorrenza nazista, oltre che sul piano strettamente politico-diplomatico, anche su quello ideologico e di propaganda culturale: quindi il recupero di un certo filone di pensiero mazziniano – che aveva sempre continuato ad esercitare un notevole richiamo, in modo trasversale, presso l’intellettualità liberale e neoidealista, l’irredentismo democratico e settori del nazionalfascismo corporativista – permetteva di aggregare tutta quell’intellettualità, italiana e straniera, che condivideva l’anticomunismo, l’antipanslavismo, l’antipangermanismo, e una più o meno radicata diffidenza per le manovre delle demoplutocrazie occidentali, Francia e Gran Bretagna, nell’Est europeo. L’Istituto per l’Europa Orientale non era estraneo a questa strategia di penetrazione ideologica messa in atto dall’Italia fascista. […] Per valutare la capacità dell’IPEO di rispondere alle aspettative della diplomazia italiana, si può osservare che esso ottenne un sostanziale successo nell’aggregare attorno a sé – e al mito centrato sull’idea del primato di Roma – gli intellettuali e i circoli politici dei paesi dell’Est europeo. Quanto all’effettiva capacità dell’Istituto di comprendere la realtà delle condizioni politiche dell’Europa orientale e di fornire quindi utili strumenti informativi alla diplomazia italiana, si deve invece parlare di un fallimento, poiché l’approccio puramente storico-letterario si dimostrò, a questo fine, improduttivo. Del resto, gli schemi di tipo mitico, quali panlatinismo e cattolicesimo, si rivelarono del tutto inadeguati come supporto ideologico alla penetrazione italiana nel momento in cui la potenza politica, economica e militare del Terzo Reich iniziò ad inglobare nella sua sfera di influenza progressivamente tutta l’Europa orientale, rendendo evidente l’inferiorità dell’Italia fascista”.
415 Funzionario dell’Ufficio Stampa, poi del Minculpop.
416 S. SANTORO, op. cit., pp.66-67; Cfr. Oscar RANDI, Il significato politico dei Balcani, “Europa Orientale”, 1936, 16, pp.85-94: “La Serbia [...] ha escogitato l’idea dello Stato jugoslavo, ch’essa vorrebbe imporre per ora ai Croati e agli Sloveni, con riserva di gettarsi poi, con tutto il peso dei suoi 14-15 milioni di abitanti, addosso alla Bulgaria, per giungere a Salonicco e a Costantinopoli. Qualora l’idea dello Stato jugoslavo, sostanzialmente panserbo, dovesse realizzarsi, provocherebbe una piccola rivoluzione nei Balcani. Gli Stati non slavi, Romania ed Ungheria a settentrione, Grecia, Albania e Turchia a mezzogiorno, dovrebbero correre ai ripari, aiutati, evidentemente, dall’Italia in Adriatico. […] Oggi, è vero, l’attrazione panslava si è affievolita. È certo però che nell’URSS, lentamente ma tenacemente, si vanno rinnovellando tutte le energie; per cui chi figge lo sguardo nell’avvenire, non prossimo, ma nemmeno molto lontano, non può trascurare la ricomparsa sulla scena del popolo più numeroso d’Europa, non ancora guarito dal miraggio di Costantinopoli. Il pericolo slavo indurrebbe quindi l’Italia a sostenere con tutte le sue forze i Romeni e gli Ungheresi. […] Roma – ch’è eterna – dovrebbe puntellare tutti i Balcani”.
417 Ivi, p. 65: “inseriti e incanalati all’interno di istituzioni culturali, funzionali ad una strategia di consolidamento e controllo del consenso”.
418 Ibid.: “Questo discorso assume poi una rilevanza particolare quando si considera la strategia del Ministero degli esteri, che puntava a mantenere aperti i cosiddetti canali della diplomazia parallela, favorendo l’esistenza di un’attività culturale di rilevanza internazionale che, proprio per poter contribuire ad un rafforzamento della presenza anche politica dell’Italia nell’Europa dell’Est, doveva essere molto più articolata rispetto alle posizioni ufficiali della diplomazia tradizionale”.
419 Ivi, p. 67: “Il richiamo a Mazzini e alla sua visione antipanslava nonché antipangermanica nei riguardi dell’Europa dell’Est faceva parte di un preciso disegno politico-culturale elaborato dal Ministero degli esteri – coadiuvato dal Ministero per la stampa e la propaganda, poi Minculpop –, in particolare negli anni Trenta. Nella strategia messa a punto su precise indicazioni dello stesso Mussolini, un ruolo di primo piano avevano assunto due istituzioni a carattere politico-culturale. La prima era quella dei CAUR (Comitati di Azione per la Universalità di Roma), fondati nel luglio 1933 e diffusisi rapidamente in numerose nazioni europee, che avevano l’obiettivo di aggregare attorno all’idea panlatina e al fascismo italiano il maggior numero possibile di movimenti nazionalisti e corporativi d’Europa. L’altra, di carattere più marcatamente culturale, ma anch’essa dalle evidenti finalità politiche e propagandistiche, era l’Istituto scientifico-letterario Europa Giovane, fondato nel 1937 da Pietro Gorgolini, che riunì nomi prestigiosi dell’intellettualità filofascista europea nel nome di Mazzini e di Roma: indicativo della peculiare sintesi fra pensiero mazziniano e ideologia nazionalfascista operata in questi ambienti era il titolo di una delle pubblicazioni curate dall’Europa Giovane, Mazzini contro il comunismo. La creazione di queste organizzazioni e l’accentuata volontà del Minculpop di sottoporre ad un più stretto controllo e ad un maggiore coordinamento istituzioni preposte alla propaganda politico-culturale già esistenti, quali la Dante Alighieri o i fasci italiani all’estero, è da mettere in stretta correlazione con l’avvento del nazismo in Germania e con il chiarirsi delle mire egemoniche tedesche nell’Est europeo, in particolar modo nei Balcani”. Cfr. Jerzy W. BOREJSZA, Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Laterza, Bari 1981, pp. 139-165, 198-99.
420 Come si è detto, a partire dalla scoperta dell’imperialismo – nell’incapacità di una sua elaborazione da parte delle forze tradizionali (così come del conflitto tra socialismo e liberalismo) – erano confluite attraverso il mito della vittoria mutilata nell’ideologia nazional-fascista – quindi nel revisionismo – due componenti ideologico-rivendicative, come: Restaurazione nazionale (irredentismo); Restaurazione imperial-totalitaria (mito della nazione rivoluzionaria). Cfr. p. 90.
421 S. SANTORO, op. cit., p. 78.
422 P. IUSO, op. cit., pp. 7-60 (10, 13, 25). Tra l’assassinio del leader autonomista croato Stjepan Radic (estate 1928) – interpretato come preludio all’insurrezione separatista e che determina, quindi, l’inizio del rapporto preferenziale col movimento Ustascia di Pavelic – e l’attentato di Marsiglia (9 ottobre 1934).